9.) Dibattiti su calzini e questioni smielate

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Scorsi Nathan fermo in un angolo del corridoio, nascosto nell'ombra di una grande aula. Aveva un'aria cupa, lugubre. Era ottenebrato dal ricordo del suo passato, che come il mio era riaffiorato violentemente dopo l'omicidio di Jace. La consapevolezza della morte che incombeva su Manhattan, sapevo, rievocava in lui, il ricordo della madre, a cui era stata prematuramente strappata la vita. Era solo un bambino quando un tumore prosciugò sua madre, quando un circolo vizioso di alcol e dolore si abbatté su suo padre. Anni dopo, grazie all'aiuto di un amico di vecchia data, il padre di Nathan era riuscito ad uscire dal suo tunnel oscuro, sbarcare nel mondo del lavoro in una grande azienda, ed aveva addirittura adottato una bellissima bambina, che potesse colmare il vuoto lasciato dall'amore della sua vita.

-Ciao Nate.- lo salutai. E l'aria lugubre venne prosciugata da un radioso sorriso sincero.

-Sembro uno di quei padri di famiglia di mezza età quando vede le sue due figlie pronte per il ballo della scuola se dico "guarda un po', le mie ragazze"?- rise.

-Si decisamente.- rise Beth. Il sole si infrangeva sulla sua chioma bionda, che sembrava composta da filamenti d'oro.

-Devo riferirvi una cosa che ho sentito...- iniziò Nate con voce flebile.
Lo incitai a continuare con un gesto del capo, mentre i suoi occhi mi logoravano con un'intensità quasi dolorosa.
-Ho ascoltato una conversazione in merito alla riammissione di uno studente.- disse, come se pronunciare quelle parole fosse una tortura dolorosa.
-Chi è lo studente?- domandò Beth curiosa con un filo di voce.
-Damian Weamen.- quel nome. Lo pronunciò con disprezzo, caricando in quelle due parole un forte e incontrastabile odio represso. Nathan mi scrutava con un'espressione che non riuscivo ad interpretare, era un misto di compassione e rancore.

E in quel momento vi ripensai. Il sangue, le convulsioni, il suo corpo inerme che giaceva sull'asfalto, la voce tremante che mi pregava di spegnere il fuoco, quel fuoco che sentiva ardere all'interno con violenza. Ricordai i suoi occhi iniettati di sangue scuro implorarmi perdono, la sua voce ferma intimarmi di stargli lontana, le sue braccia tremanti che stringevano la mia vita. Le prime vere emozioni che avessi mai testato sulla pelle riaffiorare in un unico uragano di nome Damian Weamen. Il demone più bello che avessi conosciuto, la persona più oscura che avesse macchiato il mio cammino, stava tornando, si stava insinuando nuovamente nella mia vita, pronta a distruggerla.

Lo stridente trillo assordante della campanella mi riscosse dai ricordi. Mi allontanai bruscamente rivolgendo un sorriso forzato ai miei amici. Cercai con gli occhi l'aula studio, sperando fosse vuota.
Mi ci fiondai dentro e chiusi a chiave la porta.

-Cavolo Evans, quanti drammi che fai.- una voce con fare ironico sopraggiunse alle mie orecchie. Quando mi voltai (probabilmente con aria sconvolta) scorsi Blake Blackwell, ovviamente sempre tra i piedi, seduto in terza fila, con un libro di filosofia aperto sul banco.
Era in quella scuola da una settimana e già mi perseguitava come lo spirito di una fidanzata frustrata che va in sogno al suo ex ragazzo che l'ha probabilmente tradita con qualsiasi essere che respiri.

-Ho diciassette anni che vuoi farci.- ecco la risposta più patetica e priva di un filo logico che potessi dare, bel colpo genio incompreso.

-Ciò ti giustifica?- chiese lui con la faccia di chi aveva appena affrontato la prima lezione di algebra della sua vita.

-È il momento di sbagliare.- tentai.

-L'incarnazione della perfezione, miss "se ho un capello fuori posto dalla coda di cavallo, collasso" che sbaglia in qualcosa? Sto avendo un miraggio.- la prospettiva di essere percepita come "l'incarnazione della perfezione" era sempre stato il mio piano supremo, diventare l'eccellenza, distinguermi dalla massa.

-Stai zitto mister "ti contraddirei anche sul colore dei calzini" non hai voce in capitolo.- risi.

-Probabilmente ti contraddirei anche su quello si, ma cos'è che ti frena tanto dallo sbagliare come dici tu?- lanciò uno sguardo fugace ai miei piedi, cercava di scorgere che tipo di calzini indossassi?

-Sai sono sempre stata una persona super razionale e con una specie di disturbo ossessivo compulsivo sugli avvenimenti. Sono una specie di maniaca del controllo della mia vita.
Ho sempre avuto questo bisogno di avere il pieno controllo e di mantenere regolare e stabile l'andamento della mia vita. Nel momento in cui una certezza viene meno io implodo. Ho bisogno di poggiarmi sempre su pilastri stabili e a lungo termine.- ero fragile, fragile come una mina vagante in procinto di esplodere. Avevo rigettato frasi e concetti troppo complessi da reggere sulle spalle di un semi sconosciuto che probabilmente mi giudicava pazza.

-Hai mai provato l'ebbrezza di perdere il controllo?
Hai mai provato a volare senza poggiarti a nessuno di quei pilastri che ti incatenano alla stabilità?- chiese invece.

-Ho paura di annegare.- mi limitai a gettar fuori io.

-In cosa?- provava davvero interesse nel ascoltare le mie fragilità e le mie malinconie? Davvero era interessato ai complessi della mia anima? Non lo sapevo, ma la sensazione di libertà che provavo parlandone a qualcuno che non potesse giudicarmi, era impagabile.

-Nell'oblio.- sussurrai.

-Che cos'è per te l'oblio?- era la domanda giusta.

-Un'esistenza basata sull'incertezza, abbandonata al controllo di forze oscure.- che concetto perverso. Probabilmente non l'avrebbe compreso.

-Dovresti smetterla di vederla sotto questa prospettiva, se ti fa tanto paura annegare nell'oblio, impara ad addentrarti al suo interno, diventa padrona di quell'oscurità. Molla il controllo sulla tua vita e gettati a capofitto nell'ignoto.- lo disse con dolcezza, quasi come se sentisse il bisogno di proteggermi.

-E se non ci sarà nessuno a prendermi?- che domanda patetica.

-Atterrerai sulle tue gambe.- l'avrei fatto.

-Devo distruggere quell'equilibrio statico che ho cercato per tutta la vita e vivere nell'instabilità della follia?- gli chiesi poi.

-Esatto.- confermò lui.

-Mi autodistruggerò.- risi.

-Lo farai con stile almeno.- fu la sua risposta.

-Oh, ci puoi scommettere Blackwell.-

-Ora ripetilo.- mi ordinò

-Cosa?- ero spaesata.

-"È il momento di sbagliare". Ripetilo per convincere me e non te stessa come hai fatto prima.- mi aveva letta dentro.

-È ridicolo.- fu ciò che dissi per camuffare quella mia sventatezza, la mia limpidezza.

-Fallo.- ripetè lui convinto.

-Non prendo ordini da te Blackwell.- lo sfidai.

-Sei sempre così complicata?-

-Si.- lo ero, e non me ne pentivo, amavo tutto ciò che fosse misterioso, enigmatico. Amavo il proibito, farmi trasportare dal fascino dell'irraggiungibile, l'ignoto.

-Avanti fallo. Di a te stessa che è il momento giusto per sbagliare, e poi, quando sarai convinta, ripetilo a me.- si arrese.

-È il momento di sbagliare.- ripetei convinta. Lui mi sorrise, poi spalancai la porta e uscii dirigendomi in classe e cercando una buona scusa da rifilare per giustificare il ritardo.

Cuore di TenebreDonde viven las historias. Descúbrelo ahora