Chapter 22.

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Ed i giorni passavano lenti, e le ore si moltiplicavano ed i secondi pesavano come macigni. Passarono forse due settimane, o forse una soltanto, da quella notte che, in un attimo, annullò tutte le mie domande, domande che, adesso, non avevano più bisogno di risposte. Se il giorno era una sfida contro gli altri che mi volevano aiutare, la notte era un incubo senza una fine. Di giorno evitavo le chiamate ed i messaggi di chi, come Zayn, provava a parlarmi, evitavo Greg e Denise ed anche Theo sembrava capire che non c'ero più, che ero assente, si limitava a dormire fra le mie braccia o darmi qualche bacino 'così zio Harry è di nuovo felice'. Evitavo anche Louis, strano a dirsi ma era così, gli avevo mandato un messaggio chiarendo il fatto che non era con lui che ero arrabbiato, anche se arrabbiato non era il termine esatto per definire il mio stato d'animo, e che mi sarei fatto vivo io quando sarei stato meglio, o almeno avrei realizzato appieno quello che era successo poco tempo prima. Era venuto tante volte, mi aveva aspettato sotto e dentro casa troppe volte e mi scriveva sempre, mio, egoista ed ipocrita com'ero, mi ero limitato ad ignorarlo. Volevo stare da solo, solo con il mio dolore. Non piangevo, era capitato un paio di notti al massimo, ma adesso i miei occhi, secchi e privi di ogni tipo di espressività, fissavano un punto indefinito nel vuoto, incapaci di essere spostati verso qualcosa che fosse reale, verso un oggetto o una persona. Quegli stessi occhi che tutti, io per primo, amavo, erano stati la mia rovina. Se in macchina, in un primo momento quella notte, avevo visto, oltre Zayn che era seduto accanto a me, Stan, dopo qualche momento avevo ritrovato un Niall privo di sensi adagiato la dove avevo dapprima immaginato di vedere l'altro ragazzo. Avevo rischiato di perdere l'unica persona che, nonostante le bugie ed i sotterfugi, mi era stata accanto dall'inizio, ed ero grato che lui fosse ancora salvo, anche se malconcio, e che si fosse salvato. Il pensiero, però, che Stan non fosse più vivo, mi aveva spiazzato parecchio. Non importava quanto 'cattivo' o 'rivoluzionario' fosse stato, era dopotutto un ragazzo di diciotto anni che non meritava di andarsene così e di aver vissuto una breve vita immeritata. Giunsi alla conclusione che si meritava di meglio, che si meritava molto di più di quello che avesse avuto in vita, ma, se dovevo seguire il consiglio del prete che presenziò al funerale, dovevo trovare il lato positivo della situazione, potevo affermare, con tristezza e pace a scontrarsi tra loro, che adesso Stan era libero. Avevo partecipato alla messa, nascosto in un angolo remoto della chiesa, ma ormai non ci credevo più, non credevo e non potevo credere a quel Dio che, buono ed onnipotente, aveva chiamato a se un ragazzo innocente, deviato dalla pazzia dei genitori e della gente che lo circondava.

Come poteva, un essere tanto giusto come Dio, osannato per la bontà e la giustizia, permettere tali ed atrocità?

Semplicemente avevo deciso di chiudere con le bugie e le illusioni, e, per prima, avevo tagliato via la religione, oppio del popolo. Affidarsi al nulla, pregare parole vuote, sperare in una giustizia, in una verità che, puntualmente, venivano spazzate via da qualche tragedia. "E' il disegno di Dio, ragazzo, lui sa cosa fa." , Mi sentivo ripetere da sempre, questo disegno comprendeva anche la morte di persone innocenti, di bambini e, come nel passato così come nel presente, di intere popolazioni?

Avevo cominciato ad avere i miei dubbi quando, da piccolo, ero andato a trovare un mio amico ricoverato all'ospedale, che aveva avuto un incidente, e mi ero imbattuto, sbagliando piano, nel reparto di oncologia. Inizialmente avevo provato tristezza nei confronti di quegli adulti a cui la vita era stata rivoluzionata in peggio, cominciai a provare, però, rabbia quando vidi una bambina, che avrà avuto poco più di cinque anni, sena capelli, magra all'inverosimile e riempita di tubicini, che si allontanava, mano nella mano con la madre, verso la chiesetta appena fuori l'area ospedaliera.

Quale poteva essere il piano, il disegno, di un Dio che stava facendo morire una bambina?

Pensavo a cose del genere ogni giorno, passeggiavo e mi domandavo come potesse essere possibile accettare una cosa del genere, una tale schifezza.

Io non potevo più lasciarmi abbindolare da quelle stupide speranze riposte nel nulla.

Le parole, avevo imparato, non dicevano nulla, erano i gesti che parlavano per davvero.

Andai in una cartoleria vicino Oxford Street, entrai senza pensarci troppo e comprai una penna nera, due buste e due fogli da inserire all'interno di esse. Mi recai dapprima da Starbucks, dove, insieme ad un caffè americano, accompagnai la scrittura della lettera che avrei dato a Niall, in seguito, una volta completata questa, uscii e, visto l'imminente tramonto, mi recai al parco più vicino. Dopo circa dieci minuti di camminata, una camminata lenta e strascinata, mi riposai su di una panchina, leggermente umidiccia per la pioggia avvenuta nella mattinata. Mi sistemai incrociando le gambe ed appoggiando la schiena sullo schienale. Volevo dire a Louis tutte quelle cose meravigliose che non riuscivo a dirgli quando lo avevo, volevo dirgli dei miei dubbi, dei miei demoni, volevo essere sincero con lui, lui che non sapeva ancora della morte di Stan e dell'avvenimento che precedette questa triste notizia. Volevo dimostrare che non ero una causa persa, che lo amavo davvero e che, nemmeno a farlo apposta, non riuscivo ad aprirmi, a farmi conoscere perché, in primis, nemmeno io mi conoscevo del tutto. Ero un mix di coraggio e paura, di odio e amore, di bontà e terrore e di ingenuità e cattiveria pura. Volevo fargli sapere anche che lui era riuscito a domarmi, a calmare i miei spiriti rivoluzionari che, qualche mese prima, mi avevano convinto a scappare. Lui era stato l'unico a capirmi, anche se non penso del tutto, e a starmi accanto quando, io per primo, sarei voluto scappare da me stesso. Non volevo dirgli che lo amavo, termine troppo riduttivo per spiegare, o almeno per provare a farlo, quello che in realtà provavo per lui. Nessuno mai, a parte lui credo, sarebbe riuscito a capire quello che mi faceva scattare dentro. Non si meritava i miei silenzi, si meritava molto di più, ma, dato che nessun Dio sarebbe mai riuscito a dargli qualcosa che fosse alla pari con la sua persona, decisi, anzi, promisi che mi sarei impegnato e concesso a lui affinché Louis avrebbe avuto quello doveva realmente avere.

Tra le luci gialle, rosa, arancioni, azzurre ed alcune perfino rosse e viola del tramonto, riuscii a concludere quella che si era rivelata la lettera più difficile che avessi mai avuto il coraggio di mettere per iscritto. In quelle due pagine di scrittura attaccata e, a tratti, troppo grande o troppo piccola, mi ero concesso all'unica persona che mi aveva fatto sentire una persona nuova. Mi alzai dalla panchina quando i colori brillanti del tramonto diedero spazio al blu, a tratti nero, della sera. Mi recai da Louis dove, senza farmi vedere, lasciai la lettera per il ragazzo sotto la porta di quest'ultimo, ed in seguito andai a casa dove, per prima cosa, mi diressi verso la stanza di Niall che, ancora un po tumefatto giocava con il telefono, mi salutò ma io, stanco e infreddolito, accennai un sorriso e lasciai la lettera che avevo scritto per lui.

Mi addormentai con in testa una serie di ansie e preoccupazioni che, come un mantra ormai, mi ripetevo prima di abbandonarmi al sonno.

Una notte. (Larry Stylinson)Hikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin