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"Emma cosa sono questi adesivi sullo specchio?"

Era stata una delle prime cose che sua madre le aveva fatto notare. Dopo averle fatto la ramanzina sullo stato della casa, sulle lenzuola sfatte e da cambiare, sul caos che regnava nella cabina armadio e in cucina.

Carla le aveva fatto notare gli adesivi sui due specchi del bagno: Be Happy e goodVIBESonly.

Ed Emma aveva perso un altro piccolo pezzetto di sé. Lo aveva sentito staccarsi dal corpo, nelle profondità della sua anima, e rotolare giù, fino in fondo, per gli scalini immaginari dentro di sé.

"Sono solo una stronzata che ho trovato in un cassetto. Ma li puoi buttare." Si era difesa contro il buco che le si era aperto nello stomaco nell'unico modo che conosceva: attaccando. Aveva graffiato e strappato con i denti il ricordo della prima volta che aveva visto quegli adesivi sugli specchi e quello che avevano acceso in lei. Un barlume di salute, una speranza di normalità. Ma in fondo chi decideva cosa fosse o non fosse normale?

Suo padre, al contrario, aveva sfilato per tutta la casa senza dire una parola, con il suono delle bottiglie di vetro che sbattevano nel sacchetto del sudicio stretto nel suo pugno. Un suono inquietante in quel silenzio che aveva fatto stringere le spalle di Emma in un brivido freddo, arricciandole i pori della pelle alla base del collo. L'aveva guardata stringendo gli occhi, quando aveva chiuso la porta di casa con un tonfo vibrante, lasciando fuori l'immondizia da quella casa. E da quella vita.

La ragazza aveva deglutito intuendo la nullità che si sentiva, riflessa nelle iridi giallognole di suo padre.

Dopo una settimana con i suoi genitori, la casa sembrava essere tornata il museo spaziale che era un tempo. I mobili lustri e asettici, sgombri di ninnoli e sporcizia, il divano immacolato, le scarpe riposte in file ordinate nel mobiletto di fianco all'ingresso, i bagni che profumavano di candeggina e disinfettante. Quello che riempiva le narici di Emma ogni volta che tirava su la tavoletta del cesso e si affacciava in quella pozza nera che per un breve periodo aveva quasi dimenticato.

Certe volte la ragazza se lo domandava. Quando fingeva di scordarsi di aprire i rubinetti, quando scorgeva le occhiate sfuggenti che sua madre le dava a tavola, mentre masticava voracemente tutto quello che lei le metteva nel piatto. Si chiedeva se nel profondo di loro stessi sospettassero qualcosa. E se gli andasse bene così. Restare ai margini dei problemi. Non finire coinvolti nel disastro avvelenato che in fondo si nascondeva dentro la loro unica figlia.

Si era nascosta in camera sua, seduta davanti alla specchiera della scrivania, ingombra di foto e adesivi a forma di cuore. Aveva osservato l'ombra di se stessa, il fantasma grigio e avvizzito che era diventata. E lo aveva scacciato con una smorfia schifata, affogando nei tubetti di fondotinta, illuminando le sue guance scavate con fard color pesca. Le sue labbra screpolate si erano nutrite del sapore gelatinoso del gloss al lampone e aveva allungato le ciglia rade con pennellate dense di mascara.

Si era guardata allo specchio, figura intera, truccata, pettinata, profumata. E si era riconosciuta. Aveva abbassato l'elastico dei pantaloncini Nike e si era disegnata con il pennarello nero la griglia di un filetto sotto il fianco, sul principio della curva della natica, piccola e soda. Conosceva le leggende che circolavano su quel tatuaggio indecente e completamente inventato. Ma Emma Lombardi sentiva il bisogno di accendere nuove fantasie sul suo conto, sentiva l'urgenza insensata di ritrovare il contegno perduto. Disegnò una X nera in alto a destra della griglia e una X rossa nel riquadro centrale.

Poi afferrò il cellulare e si fece un selfie allo specchio, tirando fuori la lingua e facendo l'occhiolino alla se stessa dell'immagine. Con le dite alzate in segno di vittoria.

TOUCHWhere stories live. Discover now