40

156 36 49
                                    

Cinquantaquattresimo giorno di lockdown. Primo Maggio. Otto giorni che Emma non aveva notizie di Tim. Una settimana che la ragazza aveva passato attaccata al cellulare, nutrendosi a stento, fumando spinelli, bevendo le ultime birre rimaste e vomitando quando si sentiva troppo piena di dolore per accoglierne altro.

Stesa sul letto sfatto come una salma sentiva le lacrime seccarsi sulle guance. Non ne aveva più. Aveva fatto nuovamente un tampone ed era risultata nuovamente negativa. Lei era negativa. Lo era sempre stata: così piena di negatività da radere al suolo qualsiasi cosa intorno a lei.

I capelli unti e intrigati le cadevano intorno al viso, sparsi sul materasso come una corona, come raggi di quello stupido sole che aveva sempre creduto di essere.

Non sentiva niente. Il dolore le era scivolato via come una marea che si ritira, lasciando dietro di sé soltanto cumuli asciutti di sabbia. La sentiva impastargli la bocca, scricchiolare sotto i denti e pizzicargli le orbite secche e fisse. Fissava il soffitto bianco e vedeva costellazioni dell'Orsa Maggiore moltiplicate all'infinito.

I primi giorni di assenza lo aveva cercato disperatamente tra le mura di casa, nei resti che si era lasciato dietro di sé. Aveva annusato le sue magliette stupide, ammucchiate in un angolo della cabina armadio. Si era inebriata di quel profumo fino a non avere più fiato da inalare, cercando di cibarsi di quel che restava di Tim. Aveva ascoltato la musica premendosi le sue cuffie sulla testa, schiacciando i padiglioni morbidi contro le sue orecchie, premendoli con le mani per non sentire altro suono se non quello nella sua testa. Aveva provato a contattarlo senza sosta, ad ogni minuto del giorno, a qualsiasi ora della notte. Si sentiva instabile. Si sentiva malata. Si era lasciata andare così tanto a se stessa da perdere il controllo della sua vita. Emma non aveva più il controllo di niente, nemmeno del suo corpo.

Stesa su quel letto sfatto, circondata dal puzzo di chiuso della stanza e dalle lenzuola stropicciate che necessitavano di una rinfrescata, sfogliava le stesse foto che ormai conosceva a memoria, cercando di annegare in quella sofferenza che ormai sapeva essere parte di sé e che riconosceva così familiare. Ma non c'era più niente, il suo cuore era cavo e risuonava come una conca vuota, con gli echi lontani di quello che una volta lo aveva abitato.

Emma chiuse gli occhi, sforzandosi di ricordare la sua vita prima di incontrarlo sul suo cammino. Era stata bene una volta, poteva stare bene di nuovo.

Combatteva costantemente con il desiderio di tornare indietro, cancellare il giorno del compleanno di Tim, prendere decisioni diverse così da non dover imbattersi in quegli occhi verdi carichi di odio che l'avevano divorata quella notte, sulla soglia di casa dei nonni di Timothée. E, allo stesso tempo, desiderava ardentemente scorrere in avanti veloce, tornare alla sua vecchia vita, dimenticarsi del ragazzo del terrazzo accanto.

Non sapeva più quale delle due Emma fosse reale e quale invece fosse soltanto frutto della sua immaginazione, una maschera creata appositamente per difendersi dal resto del mondo.

Si era trascinata a stento verso la porta finestra del giardino, schermandosi gli occhi con la mano davanti al viso, a proteggersi dai raggi del sole. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che era uscita fuori? Per paura di vederlo. Per paura di non vederlo.

Si era accostata al muro, nascondendosi alla vista, facendo capolino per assicurarsi che non ci fosse nessuno dall'altra parte. Si era trasformata in un cucciolo spaventato, incapace di contenere le sue emozioni. Ed era stato in quel momento che l'aveva vista. Le pupille si erano dilatate e ristrette di nuovo per mettere a fuoco la figura sul terrazzo accanto; si muoveva lentamente, eseguendo gesti privi di vigore, come se non avesse uno scopo reale. La nonna di Timothée avanzava verso la cesta dei panni, li stendeva stando ben attenta che non prendessero pieghe sbagliate, li pinzava con le molette sullo stendino. Poi trascinava i piedi verso la siepe di pitosforo, toccava le foglie verde scuro, guardava il mare in lontananza. Fu quando Emma la vide mettersi a sedere, con il viso tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi, che capì. E sentì lo stomaco contrarsi in uno spasmo.

Avrebbe voluto correre verso il muretto, stare vicina a quella dolce signora disperata, piegata su quella misera sedia sotto il sole. Ma Emma non sapeva come fare, non conosceva i modi giusti per affrontare il dolore altrui, sapeva soltanto sentirlo il dolore. Non sapeva come combatterlo. Per questo si era fatta ancora più piccola dietro quel muro di mattoni, nascosta al resto delle case, nascosta agli occhi di nonna Nina.

"Mi dispiace." Aveva sussurrato tra le lacrime, a se stessa o forse a nonno Nino, come se in cuor suo avesse sperato che potesse sentirla ovunque si fosse trovato.

Si era accasciata sul posto, schiacciata dal senso di colpa più grande delle sue spalle esili da uccellino spaurito e aveva pianto tutte le sue lacrime, singhiozzando abbracciata al cemento freddo di casa sua, graffiandosi i palmi delle mani che stringevano quelle pareti ruvide.

Fino a quando un rumore di gomme sull'asfalto non l'aveva ridestata dal suo strazio, facendole spalancare gli occhi al suono della sterzata e il gracchiare del freno a mano tirato.

Si era affacciata al terrazzo, a passi incerti, la maglia di Tim che le copriva le gambe fino a sopra le ginocchia. Quella con le cuffie bianche e l'elettrocardiogramma a forma di cuore. Quella che gli aveva regalato lei.

Aveva riconosciuto la macchina nera, restando per un attimo abbagliata dal riflesso dei raggi del sole sul tettino. Anche quando era scappata in casa, con macchie scure davanti agli occhi, per un istante aveva fatto fatica a mettere a fuoco l'immagine della porta di casa che si apriva. Aveva lanciato un'occhiata sfuggente alla finestra dalle tapparelle di legno chiuse della camera di Timothée, ma la visuale le era stata completamente coperta dalle spalle larghe di suo padre. Emma aveva strizzato gli occhi, come sotto effetto di allucinogeni.

"Papà." Aveva sussurrato, muovendo a stento le labbra screpolate.

Poi l'abbraccio di sua madre l'aveva risucchiata, intrappolandola completamente in un calore improvviso e un profumo piccante che le aveva pizzicato la gola.

Era scoppiata a piangere insieme a Carla, che stringeva sua figlia, carezzandole i capelli, allontanandola da sé per imprimere a fondo i lineamenti di quella ragazzina che stentava a riconoscere. Le guardava gli zigomi smunti, la pelle pallida e spenta, le passava le dita tra le ciocche bionde e unte sulla fronte.

"Siamo qui, piccolina mia, va tutto bene. Siamo qui." E se la stringeva di nuovo al petto, quasi come se avesse voluto trovare un modo per inglobarla di nuovo dentro di sé, nel suo utero ormai vecchio e vuoto, come se avesse voluto ingoiare la figlia che per troppo tempo aveva sentito lontana.

Emma sentì il tocco della mano di suo padre sulla spalla e alzò gli occhi grandi e lucidi su di lui. Suo padre le sorrise, restando in piedi, davanti al resto della sua famiglia inginocchiata sul pavimento. Emma gli avrebbe voluto chiedere come stesse, ma le parole le morirono sulla punta della lingua, sciolte in una dolcezza che suo padre non le aveva mai insegnato. In quell'affetto tanto bramato che nessuno dei due era in grado di dimostrare all'altro, perché incapaci di mostrarsi deboli al resto del mondo.

"È tutto passato." Disse con voce ferma, autoritaria, che fece vergognare Emma di se stessa. "Ce la siamo cavata, tutti quanti."

E quella frase, pronunciata a voce alta da suo padre, sembrò vera agli occhi della ragazzina.

I suoi genitori erano tornati. Suo padre stava bene. Emma era riuscita a cavarsela da sola.

La mano di suo padre sulla guancia di lei sembrava ancora più grande di quanto già non fosse. Ruvida e asciutta, le lisciava la pelle bagnata di sale.

"Sei stata brava." Disse. Ed Emma gli credette.

TOUCHWhere stories live. Discover now