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Emma fissava le riprese alla televisione atterrita. Su tutti i notiziari non facevano che passare le stesse immagini di una lunga fila di furgoni militari che percorrevano via Borgo Palazzo, verso l'imbocco dell'autostrada, durante la scorsa notte. In silenzio sfilavano lungo le strade per trasportare i feretri dei bergamaschi vittime del coronavirus in altri Comuni d'Italia. I cimiteri della città erano al collasso ed erano incapaci di gestire le salme che venivano per questo dirottate verso altre città per essere cremate. Uomini, donne, padri e madri di famiglia, figli strappati all'ultimo saluto dei proprio cari.

Emma non riusciva a fare a meno di pensare a suo padre. Si sentiva mancare il respiro e avvertiva il masso che le comprimeva il petto farsi sempre più pesante.

Gli ospedali erano pieni e le terapie intensive si riempivano di pazienti che avevano bisogno di caschi per la respirazione, ogni giorno di più. Molte persone nelle loro case accusavano difficoltà respiratorie e polmoniti bilaterali, aspettando i tamponi che scarseggiavano.

Questa pandemia si era trasformata in una battaglia silenziosa che si combatteva dentro le mura domestiche, una lotta in solitudine di tante famiglie. E la solitudine Emma non era mai riuscita a sopportarla.

Spense la televisione, rannicchiandosi sui cuscini del divano, e i pensieri corsero subito al padre lasciato in un letto in terapia intensiva, senza il conforto dei suoi cari a fargli coraggio. Emma pensò a tutti gli individui che non ce l'avevano fatta ed erano morti da soli, senza poter stringere le mani delle persone che amavano, soli davanti al salto più grosso delle loro vite, quello che spaventava indifferentemente ognuno di loro. Grandi e piccoli, ricchi e poveri; davanti alla morte tutti apparivano uguali. Il pensiero di non poter stare a fianco del padre se fosse successo qualcosa di brutto la spaventava a livelli incomprensibili, era una paura ancestrale, un malessere che cresceva nelle viscere. I giorni di quella pandemia sarebbero gravati sulle coscienze di tutte quelle persone che non avevano potuto fare niente per i propri cari, come macigni che li avrebbero affossati sempre di più nei giorni a venire.

Emma non era abituata alla solitudine. La ragazza conosceva la realtà dei social, un raffinato mezzo di comunicazione che metteva in collegamento tutto il mondo. Potevi postare una foto e subito quella sarebbe passata negli occhi di milioni di persone e nelle case di tutti i compagni che la conoscevano. E anche di più. Non vedeva il potenziale distruttivo nascosto in tutto questo. Non capiva che una storia ridicola, postata in un momento sbagliato, avrebbe potuto rovinare la vita di una persona già abbastanza in bilico per conto suo. Non comprendeva che questa illusione di essere collettivamente connessi gli uni agli altri in realtà stava isolando ognuno di loro nelle proprie mura domestiche personali fatte di post e di like.

Per Emma quella era la normalità.

"Mamma." La ragazza strinse il telefono all'orecchio, cercando di fare ampi respiri nonostante il fiato corto. "Ci sono novità?"

"Purtroppo, non mi dicono ancora niente, pulcino. Te come stai?"

"Sto bene."

"Hai bisogno di qualcosa, amore mio?"

Ho bisogno che torniate qui. Avrebbe voluto rispondere. Ma il groppo in gola non glielo permise. Le premeva contro le pareti della laringe, provocandole del dolore fisico reale e pungente.

"No, va tutto bene, davvero. Me la cavo."

"Ti voglio bene, angelo mio. Anche papà te ne vuole."

Emma sentì il nodo alla gola farsi sempre più soffocante e gli occhi farsi gonfi e arrossati.

"Va bene, mamma. Adesso devo lasciarti. Fammi sapere se ci sono novità."

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