× CAPITOLO LXVII ×

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× CAPITOLO • LXVII ×

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Il rumore dei passi, lenti ma che risultavano ugualmente pesanti per via della maniera in cui sembravano quasi voler affondare nel pavimento, echeggiò per il lungo corridoio costeggiato lungo il lato destro da finestre che si susseguivano l'una dopo l'altra ad intervalli regolari di sette passi o poco più. Il colore scuro riconducibile alla notte aveva già sfumato la maggior parte delle costruzioni nelle vicinanze e lo stesso concetto emergeva chiaramente anche quando questo si fondeva al verde della vegetazione rigogliosa ed egregiamente curata che incorniciava alcuni luoghi circostanti al palazzo. Aveva la mente sgombra da pensieri, Namjoon, perché per quel giorno ― ma anche come in gran parte del tempo di quelli precedenti ― ne aveva avuti fin troppi. Non aveva dolore alla testa, né alle tempie, se la sentiva solo pesare sul collo come un macigno di pietra che era tuttavia vuoto all'interno: neanche un brusio, un ronzio fugace a ricordargli che era ancora capace di distrarsi dal nulla al fine di addentrarsi nuovamente all'interno di una nuova congettura o ideale proposito. Forse stava persino fuggendo da esse; dalle riflessioni verso cui la sua mente lo dirottava nell'ultimo periodo, quando le dava la possibilità di galoppare libera e quando non c'era qualcuno a reclamare la sua attenzione. La rabbia era uno dei sentimenti più sentiti. Una di quelle viscerali, una di quelle che gli faceva venire voglia di chiudersi in una camera e gridare fino a quando la gola non gli avrebbe preso fuoco; piangere fino a quando non avrebbe avuto più lacrime e fino a quando il dolore lancinante alla testa non gli avrebbe reso come inaudita l'impresa di restare cosciente; spaccare ogni singolo oggetto che gli capitava sott'occhio, scaraventarlo dall'altra parte della stanza, e distruggere foglio per foglio ogni cumulo di carta. Ma questo poteva accadere solo nella sua mente e mai nella realtà cosciente.

Una volta arrivato all'interno della sua camera da letto, fu parzialmente sorpreso nel constatare il fatto che fosse già occupata, chissà da quanto tempo, dal suo consigliere. Jackson se n'era stato a capo chino persino dopo il suo arrivo ed infine, dopo aver macinato chissà quale discorso all'interno della sua testa, decise di riproporlo a voce solo a seguito di un sospiro che suonava come sconfitto tanto pareva abbattuto. «C'è qualcosa di tremendamente divertente in tutto questo.» Se ci si sforzava di analizzare la situazione a cui alludeva con derisione, soprattutto verso se stesso, a stento si riusciva a frenare una risata inconsolabile. Sollevò a mezz'aria la mano destra stringendo tra le dita un foglio malamente strappato lungo un lato ed accartocciato ripetutamente su se stesso lungo quello opposto e poi, dopo averlo agitato per portare gli occhi del signore su di esso, attese che i passi calcolati di quest'ultimo lo raggiungessero. Jackson se ne stava accomodato su una sedia dall'aria regale: con i bordi in legno di un colore panna rosato e delle imbottiture ― una lungo lo schienale ed una lungo la seduta ― di un rosso cremisi che finiva inspiegabilmente per diventare nerastro grazie all'ombra proiettata dalle spalle del consigliere; ed entrambe decorate con dei bottoni che ad intervalli creavano su di esse motivi che richiamavano una geometria rombica piuttosto comune negli arredi di quel tempo e all'interno di quel regno.

𝙲𝙾𝙳𝙴 - 𝟽𝟼𝟹𝟿𝟶𝟷 │ 𝙾𝙼𝙴𝙶𝙰𝚅𝙴𝚁𝚂𝙴Where stories live. Discover now