UN AMORE PROIBITO Cuori Spezz...

By _StarFreedom_

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Damon Sanders, due occhi magnetici e letali che sanno scavarti l'anima, un corpo marchiato, dove i tatuaggi a... More

NEWS
PROLOGO
Capitolo 1 Damon
Capitolo 2 Damon
Capitolo 3 Allyson
Capitolo 4 Damon
Capitolo 5 Allyson
Capitolo 6 Damon
Capitolo 7 Allyson
Capitolo 8 Damon
Capitolo 9 Allyson
Capitolo 10 Damon
Capitolo 11 Allyson
Capitolo 12 Damon
Capitolo 13 Allyson
Capitolo 14 Damon
Capitolo 15 Allyson
Capitolo 16 Damon
Capitolo 17 Allyson
Capitolo 18 Damon
Capitolo 19 Allyson
Capitolo 20 Damon
Capitolo 21 Allyson
Capitolo 23 Allyson
Capitolo 24 Damon
Capitolo 25 Allyson.
Capitolo 26 Damon
Capitolo 27 Damon
Capitolo 28 Allyson
Capitolo 29 Damon
Capitolo 30 Allyson
Capitolo 31 Damon
Capitolo 32 Allyson
Capitolo 33 Damon
Capitolo 34 Allyson
Capitolo 35 Damon
Capitolo 36 Damon
Capitolo 37 Allyson
Capitolo 38 Allyson
Capitolo 39 Damon
Capitolo 40 Damon
Capitolo 41 Damon
Capitolo 42 Allyson
Capitolo 43 Allyson
CAPITOLO 44 Damon
CAPITOLO 45 Allyson
Capitolo 46 Damon
Capitolo 47 Allyson
Epilogo Allyson
UN AMORE PROIBITO - VITE LONTANE
Nuova Storia solo per VOI

Capitolo 22 Damon

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By _StarFreedom_

È stata una settimana di merda, nella quale sono state più le giornate in cui ero fatto e sono rimasto a letto a dormire, che quelle in cui trovavo la forza di alzarmi. Tutto per colpa di un paio di occhi azzurri che mi bucavano il sonno. Il suo sguardo è il solo che riesce a mettermi di fronte alla realtà.

Nessuna mi aveva mai guardato in quel modo e non mi fotteva un cazzo di quello che potevano pensare gli altri, ma le sue lacrime, le sue urla, quei piccoli pugni delusi che mi colpivano, mi hanno fatto più male di tutti quelli che ho incassato in passato. Quando l'ho vista correre in quel modo nel corridoio del Campus, non sono riuscito a stare fermo, a voltarmi e andarmene in classe, come avevo promesso a me stesso di fare, di ignorarla. Non riesco ancora a credere a quello che ho sentito dietro la porta del bagno.

Non stava male, non può prendermi per il culo, ripenso mentre raggiungo l'ufficio del signor Liry che trovo già sulla porta pronto a uscire per andare a lezione.

«Sanders, non dovrebbe già essere in classe?», mi ricorda.

«Volevo solo darle questo», gli porgo il modulo prestampato di cui tutti disponiamo, con all'interno poche righe che spiegano il mio ritiro dal corso. Legge con attenzione e mi scocca un'occhiata di tanto in tanto, scuotendo il capo con disapprovazione.

«Si rende conto di cosa sta facendo? Sta buttando il suo futuro».

Annuisco semplicemente, sapendo quanto sono vere le sue parole e mi allontano.

Non ho scelta.

Dirigendomi verso il dormitorio, intravedo Allyson entrare in aula, avvia una ciocca di capelli dietro l'orecchio e scompare dal mio campo visivo, oltre la porta. È stato un secondo che mi ha confermato di aver preso la decisione giusta. Una volta in camera ci impiego poco a radunare le mie cose, le infilo alla rinfusa nel borsone poggiato sul letto e do un'ultima occhiata per vedere se ho dimenticato qualcosa; sollevo il materasso e sfilo il raccoglitore di pelle dal quale prendo il foglio.

Erano i primi giorni che l'avevo vista, la matita si muoveva da sola contro la carta ruvida dando sfogo ai miei pensieri. Un tempo mi bastava solo questo: un foglio di carta bianca e una matita per dare voce alla parte interiore di me che implorava di uscire, adesso, però, non riesco più a rimetterla al suo posto.

Guardo il sorriso che sembra quasi essere rimasto intrappolato nel disegno e una strana sensazione mi percorre il corpo, la percepisco mettere radici in profondità, su un suolo che era impenetrabile.

Questo prima di lei.

Mi sento in colpa, è questo che sento realmente?

Dietro al suo gesto non possono che esserci le cazzate che ho combinato in questi giorni.

Sono solo condannato a rovinare tutto ciò che sfioro.

Lascio il ritratto sulla scrivania, metto il borsone in spalla ed esco. I corridoi sono vuoti, il Campus è così silenzioso mentre tutti sono intenti a fare lezione. I piedi calpestano a fatica il prato per raggiungere i parcheggi circostanti.

Non volevo venirci in questo luogo che volevo solo dimenticare e adesso... adesso è come se non volessi più andarmene.

Guardo la moto di Alec posteggiata poco distante, apro la portiera dell'auto e lancio il borsone sul sedile posteriore; getto un'altra occhiata verso la moto e senza rendermene conto, mi ritrovo già di fronte a essa.

Ho fatto promesse che non ho saputo mantenere.

Poggio il piede sulla carrozzeria e la spingo con tutta la rabbia che ho dentro, fino a udire il suono del metallo che si schianta sull'asfalto.

Non è abbastanza, ma non lo sarà mai.

Un mese, era stato solo un mese in riformatorio, mentre mia sorella non riavrà più la sua vita ed è solo colpa sua, sua e di mio padre, grido dentro me stesso sentendo la mia anima riprendere un'altra volta a sanguinare.

Non riesco ad accettarlo, a convivere col peso dei ricordi che sembrano scivolarmi dalle mani giorno dopo giorno.

E se un domani non riuscissi più a ricordare il suo sorriso o le sue risate e rimanesse solo il vivido ricordo di lei che non riesce a riconoscermi? Salgo in macchina e con tutta la disperazione che mi rotola addosso come tanti piccoli spilli, afferro il volante sul quale per qualche istante poggio la testa cercando di riprendere fiato.

Rivederla è stato come un pugno alla bocca dello stomaco.

Metto in moto e con lo stridio degli pneumatici sull'asfalto vado verso il centro.

Cosa faccio ora?

Merda.

Passo una mano fra i capelli che quasi strattono in balia degli eventi. Per una volta vorrei prendere a pugni solo me stesso. Oltrepasso il lungo viale alberato, dove il sole a stento riesce a filtrare dalla sommità dei grandi alberi che si stagliano ai bordi della strada.

Sembra di vedere quasi la stessa luce che non riesce a raggiungere più la mia di strada. Sulla Main scocco un'occhiata al palazzo grigio dove lo stronzo sarà seduto comodamente dietro la sua scrivania, ignaro che la figliastra abbia giusto qualche problema.

Rido amaramente dato che non si preoccupa neppure di noi, si limita a mandare un assegno mensile a mia madre del quale io non voglio sapere nulla. È da quando ho scoperto che ci aveva tradito che ho iniziato a provvedere a me stesso. Con le lotte clandestine ho sempre guadagnato più che bene, alla gente piace vincere soldi facili e per me non è solo un modo per tirarmi su un bel gruzzolo in pochi minuti, ma anche un modo per dar sfogo ai miei demoni. Le nocche sbiancano per quanto stringo forte il volante, rallento appena di fronte all'edificio.

Non farlo.

Nella via di fronte, l'altra alternativa per la quale decido di optare.

Scendo e poco prima di entrare leggo l'ennesimo messaggio di scuse di mia madre, non rispondo come ho fatto per tutti gli altri.

Non sono arrabbiato con lei, i casini li ho fatti io, ma le parole sono da sempre mie nemiche e non saprei cosa dirle. Il silenzio talvolta vale più di mille parole non dette. Kimberly, con il suo non-vestito, è dietro al bancone illuminato dalle solite luci soffuse, clienti abituali stanno già mettendo negli slip delle ragazze che scivolano lungo i pali qualche banconota. Scuoto il capo quasi disgustato.

«Il solito, Kim», dico sedendomi sullo sgabello.

«Jack è incazzato nero», esclama versandomi il liquido trasparente come acqua ma che brucia più del fuoco stesso, mentre lo sento scivolare in gola.

«Ah sì?», faccio con noncuranza poggiando il bicchiere vuoto, con un cenno della testa le indico di versarne un altro.

Jack è uno dei soci del Masters, un grande cazzone che pensa solo ai soldi. Deve avercela con me per la lotta alla quale non ho partecipato.

«Gli hai fatto...», si interrompe e vedo i suoi occhi verdi oltre la mia figura, mi volto e guardo Jack nel suo completo da ricco sfigato.

«Sanders, mi devi un mucchio di soldi», mi informa Jack con tono minaccioso sedendosi al mio fianco.

Rido e afferro il bicchiere.

«Questo è quello che credi tu», rispondo.

«Non farmi incazzare», ribatte rabbioso e in uno scatto i miei occhi sono puntati contro i suoi.

«Altrimenti?», lo sfido sollevando il mento con un sorriso sghembo che compare spontaneo sul volto. «Non puoi minacciarmi, ti ho fatto incassare più soldi io di quanti ne hai fatti in due anni della mia assenza», gli ricordo e con un gesto della mano indico il locale. «Arredamenti nuovi, nuovo personale, i tuoi vestiti», afferro il colletto della sua giacca. «Credi che non sappia come hai fatto girare le voci del mio ritorno in città?». Su una settimana, gareggiavo tre sere su quattro. I soldi, per quanti ne girassero, erano diventati quasi superflui. La mia macchina, uno dei tanti piaceri che mi ero tolto.

«Toglimi le mani di dosso», protesta sistemandosi la giacca.

«Allora non rompermi il cazzo. Siamo stati noi a crearti il giro. Posso togliertelo quando voglio», e questa volta sono io a minacciarlo mentre mi scolo il terzo bicchiere di vodka liscia.

«Non cambia il fatto che mi devi una lotta», continua. La mia mente perversa sta elaborando il tutto e la bocca parla ancora prima che il cervello possa fare da filtro.

«Okay. Torno in gioco a pieno ritmo, come ai vecchi tempi. Tre giorni su quattro», gli propongo e i dollari compaiono al posto delle sue pupille. «Voglio il doppio del compenso e un appartamento. Prendere o lasciare», dico con fermezza senza degnarlo di uno sguardo, in attesa della sua risposta.

«Un appartamento?», domanda sorpreso.

«Hai capito benissimo, uno dei tanti che hai costruito a spese dei lividi degli altri», replico sarcastico. La sua mano si protende verso la mia che non esito a stringere.

Cos'hai fatto?

Non sono affari tuoi.

Zittisco la stronzetta nella mia testa e scendo nello scantinato del locale dove prendono vita i giochi.

Guardo la gabbia vuota, i graffiti che imbrattano i muri e raggiungo il grande sacco appeso al soffitto che tutti usano come scena poco prima di salire sul ring. Sfilo la felpa dalla testa gettandola su una panca lì di fianco e lo punto, senza distogliere lo sguardo dalla pelle consumata. Incomincio a colpire, sinistro, destro.

Il sacco dondola, le orecchie sentono solo il rumore della catena che lo sorregge cigolare mentre libero la mente. Nessuna fasciatura a proteggermi le mani, solo la pelle nuda che incomincia a spaccarsi nel punto diventato troppo debole, dove le tante cicatrici non riescono più a guarire, un po' come la mia anima che si colora di un nero sempre più cupo.

E continuo a colpire senza sosta, con la testa china che si alleggerisce a ogni pugno pestato.

Rivoli di sudore scivolano lungo l'addome, mi fermo senza fiato, butto uno sguardo alle mani ormai spaccate colorate di un rosso intenso. Il telefono squilla distraendomi da quella visione. Lo sfilo dalla tasca del jeans e sul display, oltre a notare chi mi sta chiamando, vedo le ore che sono volate senza rendermene conto.

«Ti manco?», chiedo sarcastico raccogliendo da terra la felpa con la quale tampono il sudore.

«Dove cazzo sei?», ringhia.

«Va tutto bene, non preoccuparti, non sono poi così lontano», gli spiego.

«Hai mollato la scuola?», sbraita Cody e distanzio il telefono per evitare che mi spacchi un timpano.

«Sì, diciamo che lo so dato che ho consegnato io i moduli», sento un frastuono dall'altro capo del telefono e capisco che la mia influenza ha contagiato anche lui.

«Sedia?», domando.

«Coglione», risponde. «Non mi hai detto niente e sei sparito così. Credevo che fossimo amici».

Resto in silenzio per un istante e sento quella strana sensazione farsi ancora avanti.

Sensi di colpa?

Oh, ma taci, io non mi sento in colpa per nessuno.

«Hai ragione ma non potevo più frequentare il corso. Poi, sì, non me ne fotte un cazzo degli studi, ho altri progetti». Vado su verso il bancone del bar per prendere dell'acqua non curandomi di essere a petto nudo visto che nel locale girano culi in bella vista.

«Sei al Masters?».

Merda.

«Sì ma... pronto? Cody? Cazzo!». Chiudo il telefono.

«Kim, dammi dell'acqua». I suoi occhi da cerbiatta sembrano incollati al mio corpo, sorride ammiccando un'occhiata famelica che so riconoscere alla perfezione. Bevo senza distogliere lo sguardo dal suo corpo ben proporzionato, i miei occhi la percorrono da capo a piedi, con un gesto del capo le indico il retro. Sorride ed esegue alla lettera l'indicazione.

La raggiungo nel magazzino, le mani scorrono sui miei pettorali fino a scendere sull'addome e raggiungere il bordo del jeans. La mano spinge la sua spalla giù, invitandola a inginocchiarsi. La guardo e lei fa lo stesso, sbottona il primo bottone dei jeans e si morde il labbro. Mi irrigidisco, sbottona il secondo e mi infastidisco del tutto facendo un passo indietro.

«Che succede?», domanda confusa ancora inginocchiata.

«Niente, non mi va più. Tutto qui». Si solleva in uno scatto sgrullando di dosso la polvere del pavimento.

«Sei uno stronzo, Damon». Sorrido divertito.

«Ma dai? Non lo sapevo».

Esco fuori dal locale e vado alla macchina a prendere una maglia pulita dal borsone. Mentre sono intento a frugare sento sbattere forte uno sportello. Mi volto incontrando lo sguardo del mio amico alquanto incazzato.

«Cosa fai qui?». Infilo la felpa nera della Boxing col cappuccio.

«Non sono né ubriaco né fatto, per il momento. Non ti scaldare», puntualizzo.

«Cosa farai adesso? Me lo spieghi? Stai mandando tutto a puttane», abbaia, come se fosse lui a perdere il suo futuro.

«Ho tutto sotto controllo, come sempre», dico con superficialità attraversando la strada fino alla porta del Masters.

«Immagino», dice sarcastico e lo fulmino con lo sguardo.

«Non posso tornare a Indianapolis per cazzi che non ti riguardano, non posso tornare al corso d'arte perché mi sono stufato di scarabocchiare e....», mi prende per le spalle facendomi voltare verso di lui.

«È per Allyson. Ti sei ritirato dal corso per lei e avendo vinto la borsa di studio se ti...».

«Se mi ritiro da lì non ho i soldi sufficienti per la retta scolastica», confesso. «Non basta qualche incontro per pagarmi gli studi perché la clinica di Arleen costa un occhio della testa. Mia madre si sta facendo il culo, lavorando come una schiava per una famiglia di ricchi bastardi come mio padre», sputo fuori tutte le parole con l'odio che prevale sullo schifo della mia vita.

«Quindi cosa fai? Vai da tua zia a New York?», lo guardo come se fosse lui ad aver bevuto.

«Ma neanche morto. La sorella di mia madre e la sua famiglia perfetta mi fanno venire la nausea». Ci sediamo in uno dei tavoli all'angolo della sala. «Finirei dritto dietro le sbarre con quel coglione di mio cugino Sebastian e i suoi aneddoti della vita perfetta che gli è piovuta dal cielo», aggiungo.

«Quindi?», gli indico quello che ha davanti.

«Torno a combattere attivamente. Tre giorni alla settimana. Jack mi darà un alloggio e nel mentre tiro su un po' di grana per andarmene da qui e potermi mantenere altrove».

Scuote il capo ma non proferisce parola. Passiamo l'intero pomeriggio a discutere sull'argomento e la tentazione di chiedergli di lei è tanta, ma la scaccio ogni volta che raggiunge la mente. Usciamo dal locale che è ormai sera inoltrata.

«Fammi sapere dove starai», dice poco prima di salire in macchina. Annuisco e raggiungo Jack all'appuntamento.

Imbocco la strada che mi ha indicato per messaggio e l'edificio di mattoni rossi a tre piani è familiare al mio sguardo che, però, al momento, non presta la dovuta attenzione.

Citofono al primo piano, la porta si apre e salgo la rampa di scale che mi separa.

«Sei in ritardo», dice indicando il costoso orologio al polso.

«Sì, sì, mostrami l'appartamento», rispondo quasi spintonandolo per entrare. Guardo i mattoni rossi che ne ricoprono anche le pareti interne, arredamenti moderni total black lo completano con l'essenziale. Vado verso la finestra e il cuore perde un battito.

«N... Non va bene questo appartamento», esclamo voltandomi verso di lui.

«È l'unico di cui dispongo, prendere o lasciare», fa un passo verso di me.

«Sai, ho parlato con Alec e sarebbe interessato anche lui a una proposta del genere», fa ciondolare le chiavi di fronte al mio sguardo, le strappo dalle sue mani.

«Fuori dai coglioni, ora», gli indico la porta. Ride, sapendo bene che non avrei potuto rifiutare.

«Tieniti in forma perché alla prima che perdi sei fuori dal giro per sempre».

Non rispondo, lo guardo chiudersi la porta alle spalle e mi volto verso il giardino sotto i miei occhi, ne scruto ogni particolare fino a raggiungere l'abitazione di legno bianca su due livelli, la luce di quella che un tempo era la mia camera si accende.

Stringo i pugni lungo il corpo, mentre l'intravedo aggirarsi per la stanza.

Maledetto karma.

Impreco.

Mi ero dimenticato di questo edificio che all'epoca della mia partenza era ancora in costruzione; pur sapendo che la via era parallela alla mia vecchia casa, quante possibilità c'erano che la finestra del mio salotto si affacciasse proprio qui? Sbuffo, i piedi incollati al pavimento, lo sguardo perso verso di lei che vedo seduta vicino alla finestra.

Sta guardando qualcosa, si passa le mani fra i capelli e con il dorso della mano sembra pulirsi il viso. Sta piangendo! Perché? Porta al petto qualcosa e sgrano gli occhi incredulo. Non può essere quello che penso. E se lo fosse? La luce della camera si spegne e senza ragionare sono già sulle scale.

Faccio il giro del retro del palazzo, guardo attorno e scavalco la staccionata di legno. Raggiungo rapido la vecchia grata poggiata alla parete della casa che arriva proprio alla sua stanza.

Era mia abitudine utilizzarla per sgattaiolare via le sere che non mi lasciavano uscire. Sorrido, mentre mi arrampico, al ricordo di Arleen che appesa alla stessa mi spronava a seguirla. I nostri tre anni di differenza non ci hanno mai separato, sono stato come un fratello maggiore per lei malgrado, in realtà, ero più piccolo.

Il fiato si spezza nel momento che tocco la finestra. Se non ricordo male bastava fare così, penso, e lentamente con un pezzo di legno, che lascio scorrere sotto il telaio, faccio scattare la serratura. La sollevo piano verso l'alto per aprirla senza far rumore e scavalco. Vedo la luce filtrare da sotto la porta del bagno della stanza. Accendo l'abatjour e guardo il ritratto tutto stropicciato sulla scrivania. Allora era proprio questo che teneva stretto al petto. La porta si apre e mi volto. La vedo sobbalzare con una mano al petto e l'altra sulla bocca.

«Ciao», dico e non so nemmeno perché, dato che mi sono intrufolato come un ladro nella sua stanza. Gli occhi rapiti dal suo corpo avvolto solo dall'asciugamano non smettono di inseguire ogni curva delle sue forme.

«D... Damon, cosa fai qui?», biascica a stento, stringendosi le braccia contro il petto.

«Non lo so», rispondo sincero. Chino la testa e fisso il parquet, lo stesso, lo riconosco dai segni del tempo in cui occupavo questa camera.

«Perché ti sei ritirato dal corso?», i suoi piedi nudi avanzano verso di me.

«È complicato», mormoro, sollevo lo sguardo e guidato dalle mie mani tiro via la molletta che raccoglie i suoi capelli. Ipnotizzato, li osservo cadere morbidi sulle sue spalle ancora bagnate. Con il dorso della mano accarezzo la sua guancia. Socchiude gli occhi. «Mi stai facendo impazzire», esclamo indietreggiando. Muovo la testa da destra a sinistra e viceversa, perché non voglio credere di essere davvero in questa stanza.

«Io ti sto facendo impazzire? Ma ti ascolti almeno quando parli?», l'azzurro dei suoi occhi è attraversato nuovamente dal grigio della delusione e della rabbia.

«Sì, tu!», incalzo indicandola, cammino avanti e indietro per la camera. «Credi di essere perfetta con il tuo modo di guardarmi?», l'accuso, apre la bocca per dire qualcosa ma la richiude subito dopo. «Mi hai creato un sacco di problemi, insomma», farfuglio cercando delle parole che in questo preciso istante hanno deciso di giocare a nascondino.


«Non è vero!», sbraito più del dovuto e mi fermo di fronte a lei.

«Cosa non è vero?», sussurra.

«Le bugie. Non erano bugie».

Prendo il suo viso fra le mani e senza darle il tempo di replicare, le mie labbra premono sulle sue, che morbide e carnose danno vita a qualcosa che si muove dentro di me. La lingua scivola contro la sua e inizia un gioco nel quale ci rincorriamo, i sapori si fondono insieme mentre il profumo della sua pelle inebria il mio respiro. La bacio, avido nel non averla avuta fino ad adesso, come se volessi recuperare il tempo perso, che sembra sfuggirmi sempre dalle mani quando si tratta di Allyson.

La sua mano preme contro il mio petto.

«Basta! Sono stanca», le mani che tremano raggiungono la sua bocca e con un gesto deciso cerca di cancellare questo momento.

Cerca di cancellare questo noi così strano e contorto che neanche io sono in grado di comprendere.

Qualcosa è come se mi trapassasse in questo preciso istante. «Non puoi presentarti ogni volta con i tuoi folli discorsi e finire per baciarmi», ribatte, il respiro accelera, seguito dal cuore che martella nel petto mentre gli occhi si incatenano a lei.

«Cosa vuoi da me Damon?».

Solo te cazzo. Te e basta se solo potesse essere così semplice.



*SPAZIO XOXO*

Capitolo lungo ma dovevo farmi perdonare per non aver aggiornato ieri. Ma fra uno starnuto e l'altro non mi è stato possibile.

Allora Damon sembra essersi messo in un altro dei suoi casini.

Tornerà sui suoi passi?

Allyson vuole delle spiegazioni le avrà mai?

Cosa succederà ora dopo l'ennesimo bacio?

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