FEEL GOOD #3

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BABY LYNN P.O.V.

Non so quanto tempo sia trascorso da quando ho avuto quelle angoscianti allucinazioni. Ore, o forse giorni. Sfoglio un albo di One Piece. Impiego un po' per capire che devo leggerlo al contrario, dalla fine verso l'inizio, da destra verso sinistra. Non sono mai stata una fanatica dei fumetti, diciamo che non ne ho mai letto uno. Di One Piece mi piacciono però i cartoni animati. Per questo, quando mi sono decisa a ingannare il tempo leggendo fumetti, ho deciso di cominciare da questo.

Siedo per terra a gambe incrociate. Non c'è una sola sedia in tutta la Red Zone. Intorno a me si avviluppano gli scaffali della sezione manga con fumetti per adolescenti.

«Mi passeresti il sale?» Alzo gli occhi dalle pagine per vedere chi ha parlato. Un lunghissimo tavolo è stato allestito di fronte a me. Un tavolo coperto da una tovaglia bianca ricamata, illuminato da un grande candelabro centrale, e apparecchiato con ricche pietanze e di ogni portata immaginabile. A un capo siede un uomo dalla capigliatura bionda, il fisico atletico, elegante con il completo a righe grigio: è lui che ha chiesto il sale per condire la quaglia sul suo piatto. All'altra estremità siede una donna in camicia da notte bianca, e le gambe accavallate a mostrare l'orlo del reggicalze come in uno scadente film erotico.

La donna prende la saliera, scosta la sedia e si alza. I suoi tacchi con paillettes si muovono da un punto all'altro e sembrano metterci un'eternità. Mi accorgo di uno strano movimento vicino alle gambe del tavolo, qualcosa che smuove l'orlo della tovaglia. «A cuccia!» dice l'uomo ricevendo il sale e al contempo mollando un calcio alla manina tesa che si affacciava da sotto il tavolo come a elemosinare un boccone. Vedo tante creaturine nude che si agitano lì sotto, ai suoi piedi. Intravedo la pelle rosea dei corpicini e i dorsi scheletrici. Sono una moltitudine di bambini rachitici, affamati, ammassati l'un sull'altro come un'onda umana compatta che schiuma pianto e lamento a ogni risucchio. La donna torna al suo posto, dove usa le dita per sgusciare un'ostrica. Entrambi non bevono acqua né vino, ma mandano giù bicchieri abbondanti di whiskey. Sono visibilmente alticci.

«Non li sopporto più,» dice la donna puntando i tacchi per terra. Lancia un'ostrica vuota sotto il tavolo, e nel punto dove cade spumeggiano i contorni di quella famelica ondata di bambini deperiti. «Dopo cena prendo la Jaguar e li metto sotto.»

«Non direte sul serio!» sbotto io mettendo da parte il fumetto. «Stanno morendo di fame, dovete aiutarli!» I due opulenti signori si voltano a guardarmi.

«Ho dato la vita per loro,» dice l'uomo. Arrotola una banconota da cento dollari, l'avvicina al lume della candela fino a infiammarne una estremità, quindi la usa per accendere il grosso sigaro che tiene fra i denti. «Mio padre era uno stronzo alcolizzato con una grande società petrolifera. Quando ho ereditato, ho investito tutti i soldi di famiglia per aiutare i più poveri, i meno fortunati... Non mi sono mai scomodato per piccole cifre, e ho tenuto per me e mia moglie solo lo stretto indispensabile per delle piccole vacanze alle Bahamas...»

«... O in Europa: Cannes, Antibes, Costa Azzurra,» interviene la donna con tono nostalgico. «Chissà che fine avrà fatto la nostra casa a Sanremo.» Ondeggia lentamente le spalle al ritmo di Interstellar Overdrive messa di sottofondo da una regia invisibile.

«Purtroppo abbiamo imparato che fare del bene porta solo del male. Una lezione che abbiamo appreso sulla nostra pelle.» L'uomo prende la cima dei suoi capelli e se li stacca dalla testa. Indossava una parrucca bionda per coprire il cranio che gli hanno rasato in prigione. «Per questo abbiamo capito che è meglio pensare solamente a noi stessi.»

L'uomo mi posa addosso il suo sguardo intenso, sotto quel paio di sopracciglia nere tatuate. Non l'ho mai visto di persona. Ma conosco bene i connotati di J.D. Levinson, il presidente della Doing Better. La società benefica legata a Mary Goldberg, la società che io ho trascinato nel fango dopo avere distrutto l'immagine di Mary.

«Lo abbiamo capito grazie a te, Baby Lynn.» Mi dice la donna al tavolo. Karen, la moglie di J.D., usa il tovagliolo bianco con le sue iniziali per asciugarsi le lacrime dal viso. Il tovagliolo porta via il trucco che aveva applicato sulla pelle, rivelando come metà del suo viso sia orrendamente sfregiato. Solo il cerone può utilizzare per nascondere gli effetti del vetriolo che suo marito le ha scagliato addosso in un impeto di rabbia, adesso che non hanno più i soldi per una plastica facciale. «Grazie a te la Doing Better non esiste più, e i nostri soldi non arrecheranno più dolore a nessuno.»

Scuoto la testa. Io volevo punire Mary Goldberg, ma non volevo portare a tutto questo, non volevo fare del male a quei bambini bisognosi. Karen agita il campanellino nella sua mano. Il trillo viene lentamente sostituito dal rintocco degli stivali neri di una cameriera. «Ho sempre avuto un debole per il denaro e per le donne,» dice J. D. «Le donne mi hanno indebolito a tal punto da farmi dimenticare il denaro.»

La cameriera porta su una sola mano il vassoio coperto da un piatto d'argento, perché l'altro braccio gli pende dalla spalla con il gomito piegato in maniera innaturale. La cameriera è di colore, molto giovane, sexy nella lingerie dai mutandoni bianchi, provocante con le calze a rete, e oscena con quella calza nera di nylon stretta intorno al suo collo. Mary Goldberg, ancora lei, la prima vittima del mio piano di vendetta.

«Anche io ti ringrazio,» mi dice Mary Goldberg lasciando il vassoio al centro del tavolo. Noto che ha un pugnale conficcato nella parte alta della schiena. «Se non fosse stato per te, non avrei mai trovato il mio posto nel mondo.»

Vorrei chiederle scusa, riavvolgere il nastro del tempo e tornare indietro, quando sento una mano stringermi la caviglia. La fiumana di orfanelli si è allungata sotto il tavolo come un cordone ombelicale troppo cresciuto e mi ha raggiunto. Le loro manine ossute e avide si arrampicano sulle mie gambe, i loro pianti striduli mi ottundono le orecchie. «Allegra ma non troppo,» scherza Karen. «Quei mostriciattoli non mangiano da parecchio tempo.» Le unghie dei bambini mi graffiano la pelle, i loro denti minuscoli ma affilati si conficcano nelle mie cosce, risalgono sempre più su, strappandomi brandelli di pancia, affettandomi il seno. Mi ricoprono interamente, mi sommergono sotto il loro peso, mi divorano pezzo per pezzo.

Dovevo capire che era tutta un'allucinazione quando leggevo One Piece. Nessun fumetto era sopravvissuto al vecchio incendio al punto da essere ancora leggibile. «We are all sleepwalkers,» cantano i Van de Graaf Generator nel buio oceanico che mi avvolge. Non vedo nulla se non una forca di stampo medievale. Palchetto di legno e trave sporgente dal quale pendono cinque robusti cappi di corda. Da ogni corda penzola un impiccato. «We only see the things we want to see.» I piedi dondolano nel vuoto. I corpi sono rigidi, la carnagione pallida, i loro volti sono quelli dei miei amici di un tempo. Di Chris, Chloe, Jimmy, Matt, Barbie. La Cerchia al gran completo. Disposti nell'ordine esatto in cui io li ho uccisi.

«But after all we've been trough...» Gli occhi senza ciglia dei morti sono spalancati su di me. Mi osservano dall'oltretomba. Le loro voci mi parlano nella testa. Era questo che volevi veramente? Tutta la fatica, tutto quel tramare nell'ombra, tutto per avere la mia vendetta. E cosa ti è rimasto alla fine? Questo? «...I know this much to be true.» Stringo nel mio abbraccio i piedi nudi di Barbie, provo a sollevarla di peso, nella speranza di farla tornare a respirare, ma più la alzo più la corda sopra di lei si accorcia, e lei rimane morta! I suoi occhi spalancati osservano i miei movimenti, mi disprezzano.

«We are all sleepwalkers.» Sono in ginocchio. Ai loro piedi. Non parlano, non battono le palpebre. Mi guardano odiosi. I miei amici morti mi guardano. Se prima parlavano con il pensiero, ora sghignazzano dentro la mia testa. Le loro anime in pena ridono, si fanno beffa di me, del mio dolore. Mi tappo le orecchie, ma loro non si fermano. Ogni loro risata è uno stiletto nel mio cuore. Mi dispiace. Mi dispiace per tutto. Se potessi cambiare le cose lo farei. «We don't see nothing we don't want to see

È tardi per pentirsi, mi rammentano le loro folli e angosciose risate, ciò che è fatto è fatto. Nessuno più li salverà, nessuno mi libererà mai dal mio dolore.

WIZ GIRL (Completata)Where stories live. Discover now