Eno - Capitolo IV

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In quei giorni, Eno venne ferito.
La notizia si sparse più rapida di un'epidemia di colera in un accampamento insalubre. Di bocca in bocca, di taverna in taverna, il messaggio volò rapido, e a ogni tappa la vicenda deviava sempre più dall'originale, assumendo toni via via tendenti all'epico e al leggendario.
Trascorsa una settimana dall'evento, era ormai impossibile distinguere cosa all'interno dei vari racconti fosse realtà e cosa finzione. Non solo: ogni narratore amava infiorettare il suo personale resoconto con dettagli inediti, che qualche passaparola più in là divenivano fatti certi e punti cardine della storia.
Così, secondo alcuni Eno era stato trafitto al costato da un giavellotto scagliato direttamente dai Cieli dal Timio Almait; secondo altri, un Eimnos era riuscito finalmente a penetrare il muro di Custodi che circondavano il baldacchino, e aveva scoccato uno strale dritto al cuore di Eno: questi si era scostato solo all'ultimo momento, venendo ferito alla gamba. Eno aveva poi decapitato il non meglio specificato aggressore, smembrandolo fino a rendere sconosciuta per sempre la sua identità. In questo modo, nessuno mai avrebbe potuto dare un nome e lodare chi aveva osato colpire il più grande fra gli Eimnos.
Altri ancora spergiuravano che il colpo di freccia fosse partito in verità da una torre distante più di una lega, e con precisione di un centesimo di pollice aveva squarciato le cortine della portantina su cui si spostava l'Eimnos. Nella sua precipitosa fuga, Eno avrebbe lasciato dietro di sé una densa traccia di sangue sul terreno. "Barili di sangue" confermavano i megalomani.
«Impossibile» replicavano i pignoli. «Se Eno possedesse tanto sangue dovrebbe essere un gigante, e allora come potrebbe viaggiare rintanato in quel baldacchino?»
«Il sangue era nero, lo giuro, l'ho visto coi miei occhi» asserivano sedicenti testimoni oculari.
«Che sia allora un petrobranco di Yül?» si chiedevano i creduloni.
«Non esistono Eimnos non umani» commentavano gli alchimisti.
«Il fatto che finora non se ne siano trovati non significa che non possano esistere» ribattevano i possibilisti.
Come avrete capito, il fatto aveva suscitato talmente tanto interesse che sul suo conto si era scatenata una babele di speculazioni, tanto da confondere ulteriormente le già torbide acque della comunicazione di quei tempi.
Per risalire alla storia primigenia, al resoconto dei fatti puro e incontaminato, sarebbe occorso uno sforzo improbo, e una determinazione senza pari. Fortunatamente per Noi e voi, essere narratori onniscienti ci sgraverà da gran parte del fardello derivante dal ricostruire una vicenda tanto fumosa e intricata. Ma qualcuno di meno onnisciente, ciononostante, ci provò comunque...
Andiamo con ordine: Eno venne effettivamente ferito.
Accadde mentre si stava avvicinando alla cittadina di Pajari. Pur non particolarmente ricca né fiorente, Pajari poteva per qualche antica ragione vantare una cinta muraria di tutto rispetto, alta forse venti cubiti, con quattro torri, che doppiavano le mura in altezza, poste a sorvegliare l'orizzonte ai punti cardinali.
Come da prassi, Eno iniziò l'avvicinamento al sorgere del Sole, da Ovest. Questo gli forniva un duplice vantaggio: in prima istanza, il Sole del mattino, ancora basso sull'orizzonte, accecava i nemici, rendendo meno precise le frecce e le cannonate al suo indirizzo. Non che la cosa fosse più di una semplice precauzione, visto che sia le une che le altre si arrestavano inesorabilmente contro la corazza di carne dei suoi innumerevoli Custodi.
Secondariamente, il lucore dell'astro sorgente mascherava a eventuali Eimnos difensori la presenza dei luminescenti protettori di Eno. Era accaduto più di una volta che gli assedianti fossero stati tratti in inganno da questo poco ortodosso quanto efficace stratagemma, non accorgendosi di trovarsi di fronte niente di meno che la più temuta macchina da battaglia di tutti i tempi, fatta forse eccezione, nelle cronache future, per Mo. E quando Eno dava il via all'attacco e i difensori si accorgevano del pericolo, era ormai troppo tardi per evitare la disfatta.
Per come i pezzi erano stati disposti sulla scacchiera del Karma, sembrava che il caso di Pajari non avrebbe fatto eccezione. Escluse le mura, la cittadina non aveva nulla di particolare: né ricchezze immense, né sorgeva su un punto strategico, né alcuno aveva ingaggiato Eno per la sua distruzione. A dire la verità, non si sa e forse mai si conoscerà il motivo per il quale Eno stesse muovendo su Pajari con innegabili intenzioni bellicose.
La cittadina non possedeva nemmeno un esercito regolare, solo un esiguo corpo di gendarmeria, quasi tutto impiegato nel pattugliamento della turrita cinta muraria.
Il Karma, che è sicuramente il bambino più creativo e capriccioso di tutti, prese questi elementi all'apparenza incongrui e li mescolò tra loro fino a creare una catena di eventi assolutamente originale, e una miscela esplosiva per Eno, per cui questo episodio fu l'inizio della sua fine, come vedremo in seguito.
Ecco come andarono le cose.
Quel giorno, di vedetta alla torre Ovest c'era una giovane cadetta. Il suo nome era Lancelotte. La sua pelle squamata e nera come l'ebano, i grandi occhi gialli da rettile, i denti acuminati e la saettante lingua biforcuta la identificavano chiaramente come una ougana.
Gli ougane, che in lingua ougana significa dispregiativamente "negri", vivono nelle calde regioni del Sud, oltre la grande Foresta Sahariana. Da molti vengono considerati subumani, sia a causa dell'aspetto inquietante e vagamente rettiloide, sia per via delle abitudini piuttosto rozze che questi popoli conservano. La verità è che, piaccia o no, gli ougane sono esseri umani a tutti gli effetti; conferma di ciò è che i – rari – figli nati da coppie in cui solo uno dei due parter è ougane sono fertili. Nonostante questo, molti credono che gli ougane si riproducano mediante la cova di uova, diceria dovuta soprattutto all'aspetto di questa bizzarra razza umana. "Più sfondata di una ougana" è un'espressione goliardica che spesso si ode nelle taverne, riferita in modo dispregiativo a questa o a quella donna. Il motto alluderebbe alla presunta mollezza degli sfinteri perineali delle femmine ougane, causata dalla continua deposizione di uova.
Anche la convinzione secondo la quale gli ougane sono creature rozze e incivili è errata: tale credenza basa i propri fondamenti sull'evidenza che, nella maggioranza dei casi, le popolazioni ougane vivono in condizioni di semi nomadismo, in ambienti aridi e inospitali, e con bassissimo livello culturale. In realtà, in sé gli ougane non sono particolarmente gretti né intellettualmente sottodotati. Essi si adeguano semplicemente al contesto sociale nel quale vivono, come del resto tutte le civiltà umane – fatta eccezione forse per i Planjan e i Kuthrabimbi dell'arcipelago Maols, i quali tuttavia esulano dai confini del nostro racconto.
Sia come sia, negrieri e mercanti di schiavi sfruttano abilmente questa credenza popolare – quella che vuole gli ougane semiumani idioti e primitivi –, e con il complice silenzio degli etnologi periodicamente effettuano incursioni nel Terzo Continente Meridionale, l'Hisule, nelle cui calde steppe dell'interno vive la maggior parte delle tribù ougane oggi note: Mamoti, Pendinghi, Tijani–Dasi, Duledule, e molte altre. I mercanti arrivano con qualche carro carico di ninnoli: minerali di poco valore, posate in ottone, pelli di renna, pecotl e quotz, frutta secca, e ogni tanto anche una pesante gabbia contentente un diploo, così simile al Mokele M'Bembe, rettile-dio mitologico adorato dalla stragrande maggioranza delle popolazioni ougane.
I negrieri barattano tutte queste merci con un numero ancora maggiore di pargoli ougane, da quelli ancora in fasce fino ai ragazzini alla soglia della pubertà. Oltre ai preziosi e agli oggetti, gli abili schiavisti blandiscono gli ingenui genitori con promesse di grandezza per i loro figli, cosicché di norma gli ougane accettano di buon grado il poco equo baratto. Raramente, qualche negro rifiuta o contesta il fatto. Quando ciò accade, il mercante sorride benevolo e regala alla famiglia recalcitrante una piccola fiala di stricnina, sostanza ignota per colore, odore e composizione agli ougane, che – il mercante assicura – donerà forza e vigore a tutti coloro che ne berranno, a patto che sia consumata sotto l'influsso benevolo di due lune piene. La qual cosa accade generalmente parecchio tempo dopo la partenza dei negrieri, quando questi saranno al sicuro sulle grosse navi in rotta verso settentrione.
Queste massicce spedizioni si verificano solitamente due-tre volte l'anno, in base alle contingenze dei Continenti Settentrionali: guerre, benessere, o la discesa dei Timii dai Cieli fanno aumentare la richiesta di pargoli ougane. Viceversa, carestie e pestilenze in genere ne riducono il consumo. Una volta giunti a settentrione, le centinaia di bambini vengono venduti, in modo perfettamente legale, nelle piazze dei grandi e medi centri, fatto salvo il Gran Mercato Lucente di Ungulion, per ragioni che, se la memoria non c'inganna, abbiamo già sviscerato.
Da qui, i giovani ougane vengono assegnati ai più disparati compiti, secondo la volontà dei loro acquirenti: chi li usa come domestici, chi come lavoratori nei campi di agnello vegetale, chi come scavatori nelle miniere di Golconda. Gli eserciti, regolari e mercenari, reclamano per sé una grossa fetta di ougane maschi già cresciutelli, da addestrare come fanti nei propri ranghi. Gli alchimisti li desiderano per la tenacia fisica che li contraddistingue, che li rende perfetti come cavie (semi) umane, mentre i regnanti spesso li utilizzano come mangime vivo per gli elasmodrilli e i chelonuri dei loro fossati difensivi.
Numerose ougane dai grandi occhi gialli e scure labbra carnose vengono invece destinate alle case di piacere, meglio se ancora intatte nella loro purezza (i viaggi in mare sono terribilmente lunghi e stressanti, per i mercanti di schiavi), onde poter soddisfare i sollazzi di grassi ricchi nobili, che alleviano fra le braccia di quelle piccole eccitanti selvagge le fatiche di una giornata spesa perorando con accorate filippiche la supremazia del nordico bianco rispetto al ferale, ributtante e bestiale ougane del meridione.
Infine, potrà sembrare incredibile ma è così, qualche ricco borghese acquista un ougane, maschio o femmina che sia, come figlio adottivo. Curiosa è la mente degli uomini. Questo è l'unico caso in cui le affermazioni dei negrieri non si riveleranno mendaci: il pargolo adottato godrà di buona salute, longevità e discrete ricchezze, sempre che riesca a sopravvivere alla faida familiare che si scatenerà quando erediterà tutti gli averi dei genitori adottivi, e gli zii non si dimostreranno esattamente favorevoli al fatto che un negro usurpi la proprietà delle fortune così duramente accumulate dagli avi bianchi.
Fortunatamente, o sfortunatamente, questo non era il caso di Lancelotte. Sottile e piccola ougana dai lunghi serici capelli neri, era stata acquistata da un mastro armaiolo di Pajari quale sua assistente. Mediocre, non particolarmente benigno né severo, l'armaiolo l'aveva iniziata all'arte della fabbricazione di marchingegni, armi e in generale arsenali da guerra, sia difensiva che offensiva. Lasciata tutto sommato libera di esplorare i confini dell'arte, Lancelotte aveva dimostrato quanto sbagliata fosse la tesi degli ougane come sostanziali imbecilli, imparando a fabbricare un buon numero di differenti congegni da battaglia, come bombe a cricchetto, balestre a ripetizione, baionette a scatto e bipartitori di potenza. In aggiunta a tutto ciò, si era anche ingegnata nell'apportare modifiche a progetti già esistenti, e l'armaiolo era soddisfatto di lei, come un padrone verso un cane obbediente e fedele. Lancelotte era felice.
Poi una notte in città era arrivata la merda rossa. I gendarmi, senza poter mettere piede al suolo, avevano allarmato come potevano la popolazione, suonando le campane a distesa dall'alto delle torri, e urlando a squarciagola dalle mura. Molti tuttavia non avevano ravvisato questo segnale di pericolo, e ignari e tranquilli si erano avviati per le strade bizzarramente deserte. Anche l'armaiolo quella sera era uscito di casa, per godersi una rinfrescante passeggiata notturna, e magari qualche ora di svago nella poco lontana casa di piacere. Scesi i pochi scalini dell'uscio, il suo piede era affondato in quella densa melma cremisi che i popolani chiamano familiarmente "merda rossa".
Poco si sa di questo bizzarro fenomeno: a metà strada tra un fungo, una pianta e un animale, la merda rossa si sposta sotto il livello del suolo, filtrando attraverso le intercapedini del terreno. In questo modo, è in grado di coprire distanze ragguardevoli senza che alcuno in superficie abbia il benché minimo sentore del suo sotterraneo passaggio. È addirittura in grado di scivolare al di sotto delle mura di una città, come accaduto in questo caso. In quanto essere vivente, se così si può definire, anche la merda rossa (che gli alchimisti preferiscono, con maggiore bon ton dei villici, definire "Fitomicozoo ruber") deve nutrirsi. Non possedendo apparato sensoriale alcuno, salvo forse propriocettori e sensori di posizione spaziale, il Fitomicozoo ruber si limita a emergere casualmente in superficie, occupando vaste aree di terreno, avvallamenti, e fondovalle scoscesi. Inequivocabilmente carnivoro, il Fitomicozoo rimane quiescente finché la sua superficie gelatinosa e traslucida non viene smossa da un animale di passaggio che per errore immerga, poniamo, una zampa. Allora, nel punto di contatto, la merda rossa rilascia potenti acidi sintetizzati istantaneamente, che aggrediscono l'arto dello sciagurato animale. A questo punto la merda rossa protrude a forza all'interno della lesione, contemporaneamente espandendosi e digerendo per mezzo degli acidi i tessuti interni della vittima; il resto si può immaginare.
Tanto micidiale quanto subdola, per sfuggirle basta una piccola rilevatezza del terreno. Caccia di notte perché il calore del Sole causa la sua evaporazione, e per essere meno visibile fra le ombre notturne. Giunto il mattino si ritira, percolando di nuovo nel terreno. Fu quel che accadde anche a Pajari, ove il Fitomicozoo ruber era, per capriccio del Karma, affiorato.
I monatti ebbero un bel da fare la mattina seguente, dovendo raccogliere i frammenti di abiti non digeriti dalla merda rossa, impastati con un nauseabondo coagulo di ossa semiliquefatte, viscere gorgoglianti e denti galleggianti in quel putrido pastone. Oltre, naturalmente, alla pelle dei malcapitati, che il Fitomicozoo disdegnava per qualche incomprensibile motivo di gusti alimentari. Questa era quasi una fortuna, dacché l'identificazione delle vittime risultava molto più semplice: i gendarmi ne contarono trentasette. Fra queste, c'era anche l'armaiolo di Lancelotte. Il Consiglio Oligarchico di Pajari mise la giovane ougana a disposizione del corpo di gendarmeria, che decise di sfruttarla come vedetta notturna. La decisione era dovuta a multipli fattori: la migliore visione scotopica degli ougane, e naturalmente il fatto che la ronda serale fosse uno degli incarichi più odiati dalle guardie pajerine, mentre uno schiavo non si sarebbe potuto sottrarre all'ingrato compito.
Da parte sua, Lancelotte non disdegnava particolarmente l'incarico: era abituata a lavorare di notte. Appollaiata su uno sgabellaccio di legno in cima alla torre Ovest, gettava ogni tanto occhiate annoiate all'orizzonte calmo e deserto. Nel frattempo, si dedicava alla messa a punto di un suo personale progetto. Durante le lunghe nottate, la piccola schiava tracciava disegni e calcoli su dei fogli di pergamena consunta rimediati nella casa dell'armaiolo, prima che fosse messa all'asta – il vecchio artigiano non aveva infatti parente alcuno, apparentemente.
La mattina, al cambio della guardia, Lancelotte sgattaiolava dalla torre fino alle officine della gendarmeria, a quell'ora deserte. Il fatto che fosse così giovane, femmina, e ougana per di più, faceva sì che la sorveglianza della sua persona fosse alquanto blanda. Nelle officine riattizzava le braci sopite della sera prima, quindi, cercando di fare meno rumore possibile, forgiava un piccolo pezzo del suo progetto, o rifiniva un componente mezzo lavorato.
Giorno dopo giorno, ora dopo ora, meccanismo dopo meccanismo, senza mai essere scoperta, quella gestazione lenta e paziente ebbe termine, e l'opera della giovane ougana vide la luce.
Si trattava di una lunga balestra in ferro nero, tanto affusolata nelle forme quanto pesante da trasportare. Le corde, in numero di sei, erano in filo di iridio, drogato con alluminio e peltro per conferire al tempo stesso resistenza e duttilità. Una doppia sicura magnetica scongiurava che colpi fortuiti potessero essere inavvertitamente scoccati una volta che le corde fossero state messe in tensione.
L'obiettivo di Lancelotte era semplice e infantile: realizzare una balestra molto potente, superiore anche alle grandi balliste da assedio, che fosse tuttavia relativamente maneggevole da trasportare. Più che sulle dimensioni, la ragazza si era quindi concentrata sulla velocità del colpo. L'aria, aveva imparato, rallentava e deviava i dardi, e tale fenomeno è tanto più evidente quanto più bassa è la velocità iniziale del quadrello. Le sei corde in iridio miravano a questo scopo: spingere al massimo la tensione iniziale, ovvero l'energia potenziale del proiettile, che si sarebbe tramutata in un'ugual energia cinetica al momento del lancio.
Un ingranaggio a scatto monodirezionale poteva essere ruotato per tendere ulteriormente le corde. Il peso della balestra era tale per evitare il più possibile gli effetti del tremendo rinculo previsto da Lancelotte.
Infine, il dardo. Lancelotte aveva infuso tutta la sua arte nella costruzione, tanto che in un mese di lavoro intenso ne aveva realizzato un unico esemplare. Aveva dovuto scegliere un materiale resistente e leggero, ma non troppo, per evitare che la potenza del colpo lo disintegrasse, o le turbolenze dell'aria lo facessero deviare dal percorso. Dopo lunghe elucubrazioni, aveva optato per un quadrello in ceramica con nucleo in gallio. La ceramica avvolgeva in un pezzo unico il più sensibile cuore in gallio, e la forma era spiralata dalla cuspide alla cocca, per ottenere un moto rotatorio e aerodinamico che favorisse il proiettile nel fendere l'aria, senza perdere velocità per attrito.
Insomma, il progetto era ultimato, e Lancelotte era decisamente soddisfatta del suo lavoro. Restava un solo problema: dove, quando e soprattutto su cosa testare la sua creazione? Non aveva l'autorizzazione per allontanarsi dalle mura di Pajari (mai l'avrebbe avuta), e di certo non poteva scoccare il dardo in città, in pieno giorno. Pericoli a parte, se fosse stata scoperta, l'arma le sarebbe stata confiscata. Di più, sarebbe stata punita per aver utilizzato strumenti e materiali non suoi... Lancelotte preferiva non pensarci nemmeno. Non restava che una sola possibilità: farlo di notte, non vista, dall'alto della torre dov'era di guardia. Il dardo si sarebbe irrimediabilmente perso nella pianura all'esterno delle mura, ma tant'è; avrebbe sempre potuto fabbricarne un altro, in seguito. Restava da decidere quale sarebbe stato il suo bersaglio.
Pajari sorgeva su una piccola collinetta al centro di una grande pianura. Il lato Est si affacciava sui campi, mentre quello Ovest dava solo su una sconfinata distesa d'erba verde smeraldo. Gli alberi erano irrealisticamente troppo distanti perché il dardo di Lancelotte, per quanto potente, potesse effettivamente raggiungerli. Conigli e lepri abbondavano, ma erano piccoli, e la ragazza non aveva voglia di gettare al vento mesi di fatica per un errore di mira. L'ideale sarebbe stato un orso, o magari un krarl biancomanto. Solo che gli orsi non sarebbero mai scesi a quote così basse, mentre non si avvistavano krarl da almeno trent'anni. Estinti, dicevano alcuni. Sai com'è, quando sei enorme, mansueto, lento, hai una carne deliziosa, il pelo bianco latte e cerchi di mimetizzarti in mezzo a dell'erba verde alta mezzo cubito, non puoi pretendere che i cacciatori ti ignorino.
Così, Lancelotte si risolse ad aspettare, portando di nascosto ogni sera la pesante balestra fino in cima alla torre di guardia, finché non fosse capitata l'occasione perfetta.

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