Mo - Capitolo IV

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Per tre giorni e tre notti Mo camminò di buon passo verso Ovest, lontano da Birque e dai luoghi a lui familiari, senza mangiare o dormire, spinto dall'entusiasmo per quel nuovo obiettivo raggiunto.
Solo all'alba del quarto giorno Mo si rese conto, con crescente costernazione e con altrettanti crampi allo stomaco, di non avere con sé né borsa, né bisaccia, né vestiario alcuno che non fossero le corte brache di tessuto grezzo che ora indossava, il perizoma sotto di esse, e la sgargiante camicia di Tororindor mancante di un bottone. Oltre a questo scarno guardaroba, dalla cintola pendeva il lungo coltello che tante volte aveva difeso Mo dai pericoli della foresta, legato alla cinta con una cintura di corda.
Con una mano al ventre dolorante per la fame sopraggiunta all'improvviso, fece voto di non farsi più consigliare dalla fretta.

Mentre così cogitava, le sue forti gambe lo portarono nei pressi di un grosso melo, cresciuto solitario a lato della strada, che si snodava ormai da parecchie leghe in una vasta piana.
Sotto l'albero oziavano tre uomini singolari. Il primo, alto e robusto, anche se a Mo apparve poco più cresciuto di un garzoncello di bottega, indossava una casacca color vinaccia, macchiata da fluidi scuri di incerta origine. Il secondo vestiva invece con una lunga tunica nera come la sua pelle squamata. Aveva inquietanti occhi da rettile, grandi e gialli, che saettavano inquieti di qua e di là. Il terzo uomo, basso di statura, riposava invece seduto appoggiato al tronco dell'albero. Quest'ultimo portava una giubba che in passato doveva essere stata bianco candido e blu cielo, ma ora ricordava più la tonalità di un giorno di nuvole. Con le braccia incrociate dietro la nuca e un cappello di paglia calcato sul viso, produceva un sommesso russare, che cessò quando il pesante passo di Mo si fece tanto vicino da fargli cadere una mela sul capo.
«Ohibò» esclamò l'uomo dal cappello di paglia, scostandoselo dal volto. «Tororindor è tornato a camminare tra i vivi?»
«Non sono Tororindor» rispose Mo. «Mi chiamo Mo.»
«Un nome piuttosto piccolo, per un uomo tanto grande. Mo e poi?» chiese Cappello di paglia, che a quanto pare non si era lasciato intimorire dai due cubiti di statura che lo separavano da Mo.
«Mo e basta.»
«Beh, Mo-e-basta, sono purtroppo dolente di annunciarti che da questo momento sei nostro prigioniero» rispose Cappello di paglia.
Mo non era preparato a imprevisti del genere, e sul suo volto si dipinse un'espressione di sorpresa. La cosa non sfuggì al trio: quello in viola sogghignò beffardo, mentre il nero fece saettare tra i denti affilati una sottile lingua biforcuta, sibilando divertito.
Grande, grosso e muscoloso, Mo non seppe fare di meglio che sfoderare il coltello arrugginito, brandendolo incerto davanti a sé. Non aveva mai affrontato un avversario umano, e la cosa lo lasciava alquanto perplesso.
Cappello di paglia sorrise divertito. «Un riottoso? Fortunatamente, abbiamo efficaci mezzi per dissuadere i recalcitranti come te dal mettere scioccamente a repentaglio la loro vita.»
Ad un suo cenno, il viola estrasse da dietro la schiena una corta balestra, con un quadrello già incoccato.
«A te la scelta, Mo-e-basta» disse Cappello di paglia. «Venire con noi sulle tue gambe, o venire con noi sulle tue mani, visto che le tue gambe assomiglieranno a dei puntaspilli.»
L'alto Q.I. di Mo rese chiara quale fosse la scelta migliore.
Fu così che Mo conobbe Camaju Rosso Sangue e la Compagnia del Disprezzo dei Nove.

***

L'uomo col cappello di paglia e la giubba biancoceleste non era Camaju. Il suo nome era Prisco, e fu lui a condurre Mo fino all'accampamento della Compagnia, a mezza giornata di cammino dal melo lungo la via. Il campo delle truppe di Camaju era affollato da tende variopinte, tanto da sembrare più un'enorme carovana di saltimbanchi erranti che un agguerrito squadrone di soldati di ventura.
Entrando nell'accampamento, Mo notò come i mercenari fossero vestiti con strane uniformi: rosa e oro, nere a pois bianchi, viola e lilla; sembrava quasi che più compagnie mercenarie si fossero unite in una sola, ciascuna conservando i propri colori. Solo alcuni, ignudi, vagavano magri e smarriti fra le tende, coperti di sporcizia e fango, gli occhi cerchiati dalla fame e dal sonno. Molti zoppicavano, altri erano monchi di un piede o di una mano. Qualcuno possedeva tre braccia, o mani al posto dei capezzoli. A Mo parve di intravvedere uno smunto bicefalo aggirarsi tra le tende. Nessuno pareva far caso a loro.
Al centro dell'accampamento spiccava un grande padiglione color rosso cupo, con pesanti drappi neri all'ingresso. "La tenda del comandante" ipotizzò Mo.
Non fu lì che Prisco condusse il ragazzo: quest'ultimo avrebbe incontrato Camaju solo molto tempo dopo.
Invece, lo portò fuori da una alta tenda grigio topo, e quivi entrarono. All'interno, su di uno scranno in legno rozzamente intagliato, sedeva un uomo con la pelle dello stesso colore della tenda. Era un uomo grigio del Nord, spiegò Prisco a Mo (che si domandò cosa mai fossero gli uomini grigi del Nord), e anche il Soprintendente Smistatore dell'accampamento.
«Significa che decido dove vai a finire i tuoi giorni» tradusse il Soprintendente. Osservò Mo per lunghi istanti, mentre questi rimaneva in piedi, in silenzio, incerto sul da farsi. «Maatsu» sentenziò infine il Soprintendente Smistatore.
«Ne sei sicuro? Perché con quella camicia arancione e i calzoni marroni, io pensavo lo avresti consegnato al Disprezzo di Lambrugo» obiettò Prisco, continuando: «Ho sentito che nel Lambrugo sono a corto di carne da cannone, forse un rimpiazzo corpulento gli farebbe bene.»
«Silenzio» lo interruppe il Soprintendente. «Chi si occupa dello smistamento per ordine di Camaju?»
«Tu, ma...»
«Vedo che i colori della tua giubba iniziano a essere sbiaditi. Si fatica a capire che fai parte del Battaglione di Uxionna. Sarebbe un peccato se qualcuno sospettasse che non indossi alcun colore, e ti assegnasse a tua volta al Maatsu. Ne convieni?»
Prisco comprese la minaccia insita nelle parole dell'uomo grigio, e tacque.
Così, Mo venne spogliato di camicia e calzoni (e perizoma). Protestò veementemente quando gli sottrassero il camicione di Tororindor, ma un corto pugnale a solleticargli i genitali lo ricondusse a più miti consigli. In tal guisa, ignudo e imbarazzato, Prisco scortò Mo all'interno del dedalo di tende, fino alla periferia di quel bizzarro assembramento. Qui, quasi isolate dal resto della tendopoli, sorgevano sul terreno molle e fangoso alcune tendacce storte dal colore indecifrabile, che in origine poteva essere stato tanto grigio, quanto bianco, quanto azzurro. Ogni tanto, qua e là, da una tenda spuntava un uomo, nudo, emaciato e scalzo, che battendo i denti dal freddo correva zoppicando a rifugiarsi in una tenda vicina.
Fu davanti a uno di quegli informi ammassi di stoffa che Prisco condusse Mo.

«Mandra, ho qui il tuo nuovo compagno di tenda» gridò Prisco, rivolto all'interno del loculo che aveva appena avuto il coraggio di definire "tenda". «Goditelo finché puoi, non penso avrai il piacere della sua compagnia a lungo» aggiunse beffardo, mentre già si avviava nella direzione opposta.
Dallo stambugio fece capolino una testa grigia e pelata, con grandi orecchie a sventola che sembravano appiccicate con colla di pesce ai lati del cranio, e un naso che avremmo definito rubizzo, se la pelle fosse stata bianca. A questo fece seguito il resto del corpo, poco più di un cubito in totale. Tozzo, dall'ampio torace glabro, e parimenti ignudo, Mandra era un nano. No, non un nano di quelli delle fiabe, con lunghe barbe e armati di ascia. Quelli non esistono, sebbene alcuni sostengano che vivano al di là dei Dodici Continenti oggi noti... intendiamo dire che Mandra era affetto da nanismo.
«Vedendo la tua statura, non mi sorprende che ti abbiano scelto come mio coinquilino!» sghignazzò Mandra, rivolto a Mo. «Vieni, vieni, entra! Benvenuto nella mia magione!»
Mettendosi carponi, Mo strisciò all'interno della magione di Mandra, come lui l'aveva definita. Il pavimento era in terra battuta, ma almeno non era fangoso e viscido come l'esterno. Mandra si mise seduto a gambe incrociate, con due buoni palmi d'aria sopra di lui. Mo dovette restarsene prono, le gambe dal ginocchio in giù fuori dal bugigattolo. Chi si fosse trovato a passare di lì si sarebbe domandato cosa fossero quei bizzarri prosciutti semoventi.
«Come avrai già sentito, sono Mandranduk, il Nano Grigio, come mi conoscono qui nella Compagnia. Ma Mandra va benissimo ugualmente. E tu bestione, ce l'hai un nome, oltre a quei pettorali?»
«Mi chiamo Mo.»
«Mo e poi?»
«Mo e basta.»
«Capisco. Con tutti quei muscoli da mantenere, pare ti sia rimasto ben poco tempo per lavorare sul tuo nome. Ma non preoccuparti, potrai rimediare in seguito.» Mandra fece un altro dei suoi sogghigni sbiechi. «Se sopravvivrai abbastanza» aggiunse.
«Che cos'è questo posto?» chiese allora Mo, che durante gli anni trascorsi col fabbro non aveva mai parlato molto, e non conosceva l'arte dello sviare un discorso, né quella ancor più delicata dell'introdurne un altro.
«È la mia tenda!» rispose Mandra, che durante gli anni trascorsi nella Compagnia aveva perso qualche punto in perspicacia.
«Intendo, cos'è tutto questo» specificò Mo allargando le braccia, e rischiando di abbattere la stamberga.
Mandra sembrò non afferrare cosa l'altro intendesse dire, e rimase per qualche istante con un'espressione inebetita. Evidentemente, era ben più di qualche punto in perspicacia. Poi ci arrivò.
«Intendi dire che non sai cos'è questo posto? Perché sei stato catturato? Cos'è la Compagnia?»
«Esattamente.»
Il Nano Grigio scoppiò in una fragorosa risata, che fece tremare i sostegni della stoffuta bicocca e mise ancor più a dura prova il suo già precario equilibrio. «In tal caso, caro Mo, ti consiglio di metterti comodo, perché non sarà cosa breve erudirti in merito al trascorso della Compagnia del Disprezzo dei Nove.»
Mettersi comodo per Mo era una parola. Ci provò comunque, rannicchiandosi come meglio poteva nell'angusta tendaccia. I bizzarri prosciutti là fuori scivolarono nel fango molle, tentando di entrare (con scarso successo) in quell'abitacolo tenuto in piedi dalla fede incondizionata.

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