Mo - Capitolo II

7 0 0
                                    


Venne trovato otto mesi dopo, sul finire dell'Inverno. Un fabbro era in cammino da Birque verso Ungulion, quando notò un cumulo di stracci al margine della mulattiera. Incuriosito si avvicinò, per scoprire che quegli stracci non erano altro che cenci sbrindellati addosso a un gracile ragazzino, smunto e pallido, dalle labbra viola, che respirava a stento. Quel ragazzino era Mo, naturalmente. Non perderemmo altrimenti tempo a parlare di eventi insignificanti.
Il fabbro, uomo certo rude ma non insensibile, ebbe compassione di quel ragazzo; raccoltolo, tornò da dove era venuto e lo condusse a Birque, dove si prese cura di lui per tre giorni e tre notti, fino a quando Mo riacquistò un po' di colore e si riebbe.
«Dove sono?» domandò appena svegliatosi.
«Sei a Birque, nella mia casa» rispose il fabbro.
Mo non aveva mai sentito nominare quel luogo. A dire la verità, non aveva mai sentito nominare alcun luogo, a parte Ungulion e il suo celebre Gran Mercato Lucente. Ma il calore della stanza e la voce baritonale dell'uomo in qualche modo lo confortarono. Tratto un lungo sospiro, si lasciò ricadere sulla paglia, sprofondando nuovamente nel sonno.
Dopo altri tre giorni, fu in grado di camminare e inghiottire cibi solidi. Il fabbro volle sapere da dove venisse quel fragile mucchio d'ossa, e come avesse fatto a sopravvivere all'Inverno nella Micidiale Selva di Tororindor. Riguardo a questo, nessuno mai lo saprà: né noi, né il fabbro, né tantomeno Mo. I ricordi di quegli angoscianti mesi nella Selva saranno per sempre sepolti nel profondo della mente di Mo. Possiamo solo immaginarli: giorno e notte in fuga, braccati dagli orrori esiliati nella foresta, mentre il gelo ti ghiaccia le ossa; la penombra perenne che pare quasi palpabile tra il pulviscolo illuminato dal pallido Sole che filtra fra le antiche fronde; occhi rossi che guatano nella notte, mentre poco lontano un sinistro masticare si accompagna allo scricchiolio di ossa schiantate. Dimenticare forse fu per Mo l'unica soluzione per non impazzire e gettarsi tra i predatori senza nome della Selva. Tuttavia, ipotizzano gli storici, questo lungo e drammatico periodo potrebbe essere stato uno dei fattori determinati nello sviluppo della personalità di Mo, come vedremo in seguito.
Invece, Mo raccontò al fabbro di come avesse udito quel misterioso sibilare dal margine della foresta, e tornato al villaggio avesse trovato quel che trovò.
Anche in questi tempi bui, le notizie più eclatanti si fanno rapidamente strada, con mormorii e mezze frasi, attraverso boschi e campi, coprendo in breve tempo centinaia di leghe. Il fabbro in più, a dispetto della sua rozzezza (più che altro una deformazione professionale), era un uomo assai arguto, e collegò il racconto di Mo a quanto aveva udito negli ultimi tempi.
«Come ti chiami?» chiese il fabbro.
«Mo.»
«Mo e poi?»
«Mo e basta.»
Il fabbro rimase per un attimo pensoso.
«Figliuolo» disse poi, «non è stato un esercito a distruggere il tuo villaggio. Non è stato nemmeno un manipolo di mercenari, né alcuna altra compagnia di cavalieri di ventura o di briganti. A dire la verità, è tutto opera di una sola persona. Il suo nome è Eno. Eno la Moltitudine.»
«E chi sarebbe questo Eno?»
Il fabbro rise. «È sorprendente che tu non lo sappia: mezzo Meridione è atterrito al solo sentirlo nominare. Eno la Moltitudine è un Eimnos.»
Fu in questo esatto momento, sostengono i biografi di Mo, che qualcosa dentro di lui si spezzò. O qualcosa di nuovo si originò, secondo altri. Un grumo di pece nera, un conglomerato di dolore e odio, un piccolo sassolino di determinazione, un germe che sarebbe cresciuto nel corso degli anni.
Alla parola "Eimnos", tutti gli avvenimenti della sua vita andarono per la prima volta al loro giusto posto, ed egli comprese quanto fosse stata ingiusta. Quanto la sua nascita non fosse desiderata in sé e per sé, ma solo per la possibilità di avere un Eimnos in famiglia; quanto fosse stato crudele il suo vecchio padre, quanto egoisti i suoi fratelli, quanto cupa e disperata fosse stata l'esistenza che aveva condotto fino a quel momento. Quanto insensato fosse stato lo sterminio del suo villaggio per mano di uno sconosciuto.
Mentre Mo era rapito in questa epifania, il fabbro aveva continuato a parlare.
«Eno la Moltitudine è di certo l'Eimnos più potente che abbia calcato queste terre, da molte Ere in qua. Re e regine, arciduchi e visconti si arrogano il diritto di poterlo avere ai propri servigi. Ed egli accetta sempre, a patto che il nemico da affrontare sia abbastanza pericoloso e numeroso. Eno, vedi, è da tempo considerato invincibile, e diventa sempre più difficile che sia disposto a scendere in battaglia per qualche regnante. Non perché egli si rifiuti, tutt'altro: il fatto è che quando un esercito viene a sapere che nella prossima schermaglia dovrà vedersela con Eno, diserta e fugge. La straordinarietà di Eno sta nel suo Custode, o meglio nei suoi Custodi: se ne contano migliaia, alcuni dicono centinaia di migliaia, tutti uguali. Quando avanza, i suoi Custodi lo seguono e lo precedono, sterminando indiscriminatamente ogni forma di vita che si trovi nel raggio di duecento e passa cubiti.
«Sul finire dell'Autunno, si è venuto a sapere che Eno avrebbe combattuto per il Granduca Foyers contro la Casata Mirabeau, sul limite estremo del Promontorio D'Este, al confine con la Terra di Norne. Alla fine la guerra non si è più fatta: i Mirabeau hanno firmato la resa incondizionata contro i Foyers, e ora tutta la regione D'Este fa parte del Granducato Foyers. Tuttavia, si dice i Mirabeau si siano arresi solo dopo aver assistito alla furia distruttiva di Eno contro un loro avamposto. Se davvero così è, allora l'Eimnos dev'essere arrivato al promontorio passando da Est. La sua ultima posizione nota era infatti nei pressi delle Sterpaglie dell'Azeglio, cinquecento leghe più a Nord di Ungulion. E nel suo percorso dalle Sterpaglie al Promontorio D'Este, deve aver seguito il margine della Micidiale Selva di Tororindor, dove si trova... ehm, trovava il tuo villaggio.»
Il fabbro si grattò la barba, soddisfatto per quella serie di deduzioni così azzeccate. Senza curarsi dello sguardo vuoto di Mo, proseguì. «Dovrei avere una carta della Pretura di Ungulion, qui da qualche parte. Se la trovo, posso mostrarti come...»
«Lo ucciderò» lo interruppe all'improvviso Mo.
«Come dici?» chiese stupito il fabbro, strappato anche lui alle sue elucubrazioni.
«Ucciderò Eno. Mi vendicherò» ribadì Mo, atono.
L'espressione del fabbro cambiò, ed egli si fece d'un colpo molto serio. «Le tue sono parole gravi, ragazzo» fece, con quella sua profonda voce baritonale.
«Non m'importa» rispose caparbio il fanciullo, aggrottando le nere sopracciglia. «Mi metterò in cammino oggi stesso, troverò Eno.»
Il fabbro rimase una attimo in silenzio, osservandolo pensosamente.
«Molto bene» disse infine. «Tuttavia, temo di non poterti lasciar andare. Ti ho salvato la vita, e da oggi hai un debito personale con me. Potrai intraprendere il viaggio solo quando considererò restituito il favore.»
«Cosa devo fare, perché tu mi lasci partire?»
Il fabbro si avvicinò a una grossa cassapanca in legno scuro, rimasta in ombra in un angolo della stanza fumosa. Apertala, si mise a frugare fra pile di abiti in naftalina, fino a estrarne un enorme camicione arancio, con lunghi polsini bianco sporco e un alto colletto in pizzo ricamato, tutto stropicciato.
«Questa camicia fu cucita per Tororindor, il famoso condottiero. Nel dialetto di Dila del Mare, "rindor" significa "grande" o "possente", mentre "Toro", beh... significa proprio "toro"» disse il fabbro, mentre dispiegava la camicia tendendola fra le braccia ben distese.
«Come puoi vedere, l'appellativo pare fosse meritato» continuò, la voce che giungeva da dietro quell'indumento che per dimensioni somigliava più a un lenzuolo. Indicò le borchie in bronzo, grosse come albicocche, cucite lungo il bavero. «Ecco come salderai il tuo debito. Potrai andartene quando, indossando questa camicia, ti andrà tanto stretta da farle saltare i bottoni.»
Lanciò il camicione a Mo, che scomparve inghiottito dalle pieghe del tessuto. Il ragazzo ne riemerse annaspando, sbracciandosi per farsi largo in mezzo a quel piccolo mare arancione.
«Nel frattempo, lavorerai per me. In questo modo avrai diritto a condividere il mio desco, e contemporaneamente sarà un buon modo per riempire quella camicia.»
Il gracile ragazzo non disse nulla, ma fissò con i grandi occhi neri il consunto abito del defunto mercenario, quasi volesse trapassarlo con lo sguardo. Le sue piccole mani stringevano forte il camicione spiegazzato.
In quel momento, il fabbro seppe con certezza che quel debito, da chiunque altro considerato insaldabile, sarebbe stato solo il primo passo verso qualcosa di più grande.
E il ragazzo mingherlino divenne un toro.

AgapantoWhere stories live. Discover now