Capitolo 39

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Hayden

Ficcanaso. Bambina. Rompicoglioni. Stronza. Provocatrice. Testarda. Bella.

Erano questi gli aggettivi che avrei usato per descrivere Makayla. E il primo lo avrei scritto a caratteri cubitali, sottolineato e circondato centomila volte.

"Non puoi fare placcaggi di questo genere, Miller. Avresti potuto rompergli il collo! Questa sera sei fuori. Vai in spogliatoio e datti una cazzo di calmata!"

Sentivo ancora la voce del coach che mi urlava addosso e non faceva altro che farmi innervosire maggiormente.

Non mi piaceva la violenza. Sul serio. Soprattutto perché quando perdevo il controllo non riuscivo a pensare correttamente e agivo in modo aggressivo e spericolato non pensando alle conseguenze.

E mi odiavo perché l'ultima cosa che volessi fare era quella di far male a qualcuno.

In mia difesa, quello era debole come un grissino e si sarebbe potuto rompere l'osso del collo se fosse semplicemente caduto dal letto, ma dovevo anche ammettere che il mio placcaggio non fosse stato dei più regolari.

Ma ero incazzato. Troppo. Da ormai dieci cazzo di giorni.

Dieci giorni da quando avevo visto l'ultima volta quella dannata impicciona di Makayla.

Da quando l'avevo beccata con il mio diario a vedere l'ultima cosa al mondo che avrei voluto sapesse.

Dieci giorni da quando le avevo urlato di andarsene e l'aveva fatto.

Non ci parlavo da dieci giorni.

E questa sera non era neanche venuta alla partita. Non che mi interessasse, ma avevo notato la sua assenza.

«Hayden, le mani...» Una voce echeggiò nello spogliatoio vuoto e freddo. 

Aprii gli occhi e trovai Brandon di fronte a me. Non mi ero nemmeno accorto che fosse entrato qualcuno. Troppo impegnato a ritrovare la calma interiore che in quel momento sembrava essersi andata a fottere.

Ero seduto a terra, indossavo ancora la divisa con le protezioni ed ero contro gli armadietti. Il casco era a terra vicino ai miei piedi e le nocche mi bruciavano.

Le guardai e agitai le dita. Le nocche erano solo sbucciate e rosse. Niente di che. Niente di nuovo.

«Che vuoi?» la voce mi uscì arrochita.

Picchiettai la nuca sul metallo e strinsi i denti. Avevo anche un fottuto mal di testa che non mi passava da giorni.

«Volevo solo assicurarmi che non avessi distrutto lo spogliatoio,» replicò, guardando due solchi di pugno nel metallo di un armadietto, il mio. Lo indicò con espressione meravigliata, «quanto vale questa opera d'arte?»

Ruotai gli occhi e mi alzai con fatica per poi togliermi la maglia sintetica della squadra e sfilarmi le protezioni.

«Perchè sei qua? La partita non è ancora finita.» parlai senza guardarlo.

«Lo sai che vengo alle partite solo per vedere te, vero, coglione?» sospirò, «e volevo vedere come stavi. Mi sei sembrato abbastanza sconvolto.»

«Non sono sconvolto.» scattai, aprendo l'armadietto.

«Oh, scusa. Non sapevo che rompere le ossa del collo alle persone fosse un tuo nuovo hobby.»

Inspirai a fondo, stringendo le mani in un pungo. Non colpirlo, vuole solo provocarti. Appoggiai la fronte sudata al metallo freddo e chiusi gli occhi. E non avevo rotto l'osso del collo a nessuno. Era solo caduto un po' male. 

It's a ClichéWhere stories live. Discover now