Scuse

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Mi svegliai. Il bagliore della luce mattutina mi investì in pieno. Non sapevo per quanto avevo dormito ma, a giudicare dalla posizione del sole in cielo, doveva essere all'incirca mezzogiorno. Mi ero addormentata tardi, molto tardi – o molto presto, dipendeva dai punti di vista – e di conseguenza mi ero svegliata a giorno inoltrato, sebbene non avessi dormito molto. Non mi sentivo neanche tanto riposata. Accanto a me, il letto era vuoto. Io e Marco ci eravamo addormentati quasi all'alba, e supponevo che si fosse alzato presto e se ne fosse andato. Da un lato mi dispiaceva, ma dall'altro ero contenta così, perché non avrei potuto affrontare un'altra conversazione come quella che avevamo avuto la sera precedente e, soprattutto, non alla luce del sole. Non sarebbe stato affatto facile guardarlo negli occhi.
Girai la testa verso sinistra. Accanto a me notai una bacinella chirurgica con dentro anestetico, disinfettante, guanti in lattice e tutto l'occorrente per poter applicare i punti di sutura. Sospirai. Sapevo bene chi li aveva lasciati lì, come sapevo che quella stessa persona in quel momento non voleva avere nulla a che fare con me. Cominciavo a pensare che la situazione fosse più critica di quanto mi fossi immaginata. Affondai la testa nel cuscino e chiusi gli occhi. Rimasi in quella posizione per qualche minuto, poi mi decisi a ridestarmi. Avrei dovuto cavarmela da sola.
Afferrai la bacinella, mi infilai i guanti e iniziai ad applicare il disinfettante sulla ferita, pulendola a fondo e con cura. Il difficile – per non dire impossibile – arrivò quando venne il momento di anestetizzare la gamba. Detestavo gli aghi dal profondo del mio cuore e l'infinito disprezzo che nutrivo verso di essi non aiutava, soprattutto se si trattava di infilzarne uno di mia spontanea volontà in una ferita aperta. Sospirai un paio di volte, guardando afflitta la mia coscia. Rimasi a fissare quello scempio, con la siringa in mano, per cinque minuti buoni. Sbuffai, consapevole che avrei comunque dovuto farlo, prima o poi. Proprio mentre con l'altra mano mi accingevo a separare i due lembi della lacerazione, così da riuscire a vedere meglio, percepii una presenza accanto a me che mi costrinse a voltarmi e ad interrompere – non che mi dispiacesse – quello che stavo facendo.
«Ti serve una mano?» chiese la figura, quasi divertita. Lo fissai con espressione truce. Non c'era niente di divertente in quella situazione.
«A dire la verità, sì» risposi io, piuttosto scocciata. Gli feci cenno di avvicinarsi e, quando ebbe posato sul lenzuolo il cesto di frutta fresca che aveva portato, gli spalmai il disinfettante sulle mani, fino ad arrivare a metà avambraccio. Non lo avrei mai ammesso ad anima viva, ma venire a stretto contatto con i suoi muscoli vigorosi mi aveva dato un brivido di piacere. Mi sarei volentieri offerta per fargli un massaggio, se mai ne avesse avuto bisogno. Dopodiché gli passai la siringa. Mi vergognavo non poco a chiederglielo, ma non vedevo altra soluzione plausibile. Se per farlo avessi aspettato me stessa, sarei morta di vecchiaia.
«Potresti anestetizzarmi tu la ferita, per favore?» gli chiesi, stavolta con più dolcezza. Per tutto il tempo il suo sguardo era stato a metà tra il perplesso e il divertito. Come risposta, sbuffò una risata. Alzai gli occhi al cielo. Come se non fosse bastata la batosta che mi aveva dato la sera prima, ora gli domandavo anche questo.
«Che devo fare esattamente?» domandò a sua volta Marco. Gli spiegai la procedura e quando fui sicura che ebbe capito – non che ci volle molto – dilatai ancora una volta i lembi della ferita per lui e lasciai che mi anestetizzasse la zona. Guardarlo mentre lo faceva fu una tortura. Non soltanto perché avevo un ago conficcato nella carne, ma anche perché così facendo avevo di nuovo dato prova della mia inadeguatezza.
Quando ebbe finito lo ringraziai e gli permisi di osservarmi mentre suturavo. Li contai. Mi ci vollero ventiquattro punti di sutura per riparare il taglio. Non era molto esteso, ma era piuttosto profondo. Non fu facile, ma mi feci coraggio e cercai di fare più in fretta possibile.
«Quindi sei un'aspirante medico che ha paura degli aghi» commentò il biondo una volta che ebbi finito.
«Vai a quel paese» gli risposi senza nemmeno guardarlo, intenta a fasciare la ferita.
«Non so se te ne sei accorta, ma già ci sono» disse lui, sorridendo.
Risi e scossi la testa. Non aveva tutti i torti. Questo era il suo potere. Un potere molto pericoloso. Poteva farmi saltare i nervi cento volte, e cento volte lo avrei comunque perdonato e ci avrei riso su, perché lui era in grado di strapparmi un sorriso anche nelle situazioni più brutte.
«Comunque, vedo che il chirurgo ti ha insegnato bene» confessò dopo un po' «Hai fatto un lavoro impeccabile».
Sorrisi quasi inconsapevolmente e annuii. Almeno qualcosa di giusto riuscivo a farlo, a quanto pareva.

Lost girl - ONE PIECEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora