Vendetta

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I giorni passarono e i miei lividi svanirono, così come i miei sensi di colpa. In qualche modo mi ero convinta che l'uomo a cui avevo tagliato la gola meritasse il suo destino. Non l'avrei mai dimenticato, ma avevo deciso che dovevo andare avanti. Anche perché ero piuttosto sicura che ce ne sarebbero stati degli altri, e alcune volte ucciderli sarebbe stata l'unica soluzione possibile. O io, o loro. Vigeva la legge del più forte e, per sopravvivere in quel mondo, si doveva fare questo ed altro. Non era una cosa a cui mi sarei mai abituata, ma del resto non ero l'unica che aveva qualcosa da ridire sul sistema governativo di quell'universo.
Il tempo aveva giocato un ruolo fondamentale in quella situazione, e ora riuscivo perfino a dormire per tutta la notte senza risvegliarmi all'improvviso, in preda ai terrori notturni. Le prime notti dopo l'accaduto, continuavo a sognare l'uccisione di quell'uomo. Forse perché, anche da sveglia, non facevo altro che pensare a quella scena. Mi tormentava, era come se qualcuno l'avesse impressa nella mia mente con un ferro rovente. Certe volte pensavo che quella fosse una punizione più crudele della morte che avevo dato a quel cacciatore di taglie. Di certo, era una vera tortura. E se una parte di me pensava di meritarselo, l'altra - quella che aveva bisogno di una buona qualità e quantità di sonno - non era tanto d'accordo.
I miei compagni mi erano stati vicini in quel momento così difficile della mia esistenza. Bepo mi aveva consigliato di inventare un nome ed una storia per l'uomo a cui avevo tolto la vita. Forse, così, sarebbe stato più facile. Mi aveva confessato che con i primi uomini che aveva ucciso aveva fatto in questo modo, lo aiutava a commemorare le sue vittime. Così, avevo decretato che quell'uomo si chiamasse John e che prima di diventare un cacciatore di taglie facesse il pescatore. Era un ubriacone e non aveva famiglia, né uno scopo nella vita. Era entrato nella compagnia di quello stupido pipistrello per caso, perché era avido di denaro e cercava un modo veloce e non del tutto illegale per arricchirsi. Che non fosse un lavoro moralmente accettabile e corretto, non gliene importava un fico secco. Poi aveva incontrato me e, beh, non gli sarebbe importato più nulla di niente. Fine della strada, fine della corsa. Certo, Bepo mi aveva anche detto che dopo un po' aveva smesso di fare quella specie di gioco perché aveva perso il conto di quanti ne avesse ammazzati, e io speravo che non sarei mai arrivata a quel punto, ma se c'era una cosa che avevo imparato da tutta questa orribile storia, era che il mio obiettivo era di sopravvivere. E ovviamente di proteggere i miei compagni. E avrei fatto tutto quanto in mio potere perché ciò si realizzasse.
Penguin e Shachi, invece, mi erano stati vicino a modo loro, e in quelle settimane eravamo diventati affiatati compagni di bevute.
Anche la musica mi aveva aiutato parecchio. Certo, non avevo Brook che mi suonasse "Il liquore di Binks" giorno e notte, ma lo avevo registrato e avevo anche il mio amato Ludovico Einaudi e quella che io chiamavo "la canzone della Stella". Ad alcuni sarebbe sembrato stupido, ma mi aiutava a stare meglio.

«Canti ancora quella stupida canzone?» una voce alle mie spalle mi fece spaventare. Mi tolsi le cuffiette e mi voltai, smettendo all'istante di canticchiare.
«Ho trovato il regalo perfetto per il tuo prossimo compleanno. Delle scarpe da tip tap. Almeno così potrò sentirti quando arrivi».
Law rimase indifferente alla mia affermazione, aprì uno dei tanti sportelli che c'erano in cucina, prese la sua tazza e si versò del caffè dalla caraffa. Poi si sedette al mio stesso tavolo e mi fece cenno di passargli il giornale che stavo leggendo. Mi lanciò un'occhiataccia quando vide che era spiegazzato ai lati e io gli rivolsi un sorriso imbarazzato. Non era colpa mia se aveva il passo felpato e se, a causa dei suoi soliti agguati, mi faceva spaventare proprio mentre avevo in mano il giornale.
Per un paio di minuti osservò distrattamente gli articoli sul rotocalco, poi posò il quotidiano e spostò lo sguardo su di me.
«Ho un lavoro per te» mi annunciò con indifferenza.
Storsi la bocca. Quando pronunciava quelle parole non era mai un bene. L'ultima volta che le aveva dette ne era un esempio.
Sospirai. «Suppongo di non poter declinare l'offerta» feci, rassegnata al mio destino.
«Non è un'offerta» puntualizzò lui, anche se non ce n'era alcun bisogno, perché sapevo bene che quella non era una proposta, ma un ordine.
«Allora dimmi, coraggio» lo esortai io accompagnandomi con un gesto della mano.

Lost girl - ONE PIECEWhere stories live. Discover now