Epidemia

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Polar Tang.
Quindici giorni dopo.

Finalmente il supplizio era finito. Non sapevo chi ci avesse fatto questo immenso favore – anche perché altrimenti gli avrei fatto una statua gigante – ma qualcuno aveva detto ad Omen e Maya di darsi un contegno. E i due, che erano già abbastanza pudichi per conto loro, avevano pressoché smesso di farsi effusioni. Era una vittoria per – quasi – tutti. Tuttavia, se ci eravamo liberati di quel peso, ce ne eravamo dovuti accollare presto un altro. Perché giustamente le cose non potevano, per una volta, filare lisce come l'olio.
Non sapevo come, ma praticamente tutti i Pirati Heart si erano ammalati, uno dopo l'altro. Gli unici ancora in piedi e sani eravamo io, Law, Jean Bart e Ryu. Sebbene Ryu fosse il mestolo più veloce della Grand Line, Jean Bart valesse come tre uomini e io e Law – che come Rufy non si ammalava mai – fossimo medici ben addestrati, era lo stesso una fatica occuparsi di diciotto persone malate. E non erano persone qualunque, per giunta. Tra di loro, oltre ad esserci più piagnucoloni di quanti ne potessi sopportare, c'era anche chi era estremamente puntiglioso. Non c'è cosa peggiore dei medici che tentano di curare altri medici. E in qualità di unico dottore ancora in buona salute – dal momento che nessuno osava lagnarsi in presenza del Capitano – ero io a dover subire tutte le lamentele. Non lo avrei mai augurato a nessuno, nemmeno al mio peggior nemico. Li odiavo. Prima o dopo li avrei uccisi tutti. Dal primo all'ultimo. Neanche a dire che avessero contratto una malattia mortale. Si trattava solo di quella che nel mio mondo sarebbe stata considerata influenza, se non fosse stata appena un po' più debilitante e aggressiva di quanto non fosse nel mio universo. Andavamo avanti così da cinque giorni e la cosa cominciava ad essere stancante e soprattutto snervante. Tra medicine, cibo e brontolii vari iniziavo a non capirci più niente. Specialmente perché ognuno aveva dei sintomi diversi. C'era chi aveva forti capogiri, chi alternava brividi a vampate di calore, chi aveva la nausea, chi vomitava direttamente, chi era costipato e chi aveva la febbre alta. Dovevo tenere nota di chi lamentava cosa e di quale medicina dare a ciascuno dei malati. Ma la cosa peggiore era che in infermeria non c'era abbastanza spazio per tutti, quindi quegli stronzi dei miei compagni se ne stavano rinchiusi beatamente nelle proprie cabine e a me toccava correre ogni volta da una parte all'altra del sottomarino. Law mi dava una mano, era vero, ma il più delle cose le aveva delegate a me e io faticavo molto a stare dietro a tutti.
Chiusi gli occhi, abbandonai appena all'indietro la testa, mi appoggiai al bancone della cucina e mi lasciai cullare dal sapore forte ma allo stesso tempo delicato del liquido scuro e caldo che mi stava scivolando in gola. Tenevo la tazza con dentro il caffè con entrambe le mani e ne inspiravo l'aroma a pieni polmoni. Anche solo quello bastava a ridestarmi.
Mi lasciai sfuggire un verso gutturale dalla gola, che poteva essere molto equivoco ed ambiguo.
«Ah, pausa caffè,» sussurrai, con la stessa espressione sul viso di uno che aveva appena visto il Paradiso.
«Ultimamente ne ingurgiti parecchio. Forse dovresti fare una pausa,» commentò Ryu, intento a trafficare con mestoli e utensili vari. Non capivo come facesse ad avere tante energie anche in una situazione del genere. Certo, il suo lavoro era un po' diverso dal mio e non differiva tanto da quello che faceva di solito, ma era comunque un compito oneroso quello di preparare i pasti per dei malati.
«La sto facendo ora, è proprio per questo che si chiama "pausa caffè".» La voce mi uscì con più nervosismo di quanto avrei voluto. Non per niente, il cuoco grugnì, infastidito dalla mia risposta.
«Intendo una pausa dall'accudire tutti, che è il motivo per cui bevi tanto caffè.»
Girai di scatto la testa verso di lui e sbuffai una risata.
«Noi medici non facciamo pause,» dichiarai solennemente. «Almeno, non finché tutti i nostri pazienti non stanno bene.»
Il mio cellulare trillò, facendomi sussultare per un attimo, al punto che la bevanda scura quasi fuoriuscì dalla tazza. Ormai faceva lo stesso identico suono da cinque giorni, ma io ancora mi ostinavo a sperare che mi fosse arrivato un messaggio o che qualcuno della mia famiglia mi stesse chiamando. Lo presi dalla tasca, controllai lo schermo sbuffando e molto controvoglia appoggiai la tazza dietro di me. Con un colpo di reni mi rimisi in piedi e mi scostai dal bancone.
«Devo andare. Bepo ha bisogno dei suoi antibiotici.»
Per tenere le fila di tutto, avevo escogitato un sistema che comprendeva fogli e foglietti vari sparsi per tutta l'infermeria e promemoria impostati sul telefono che mi ricordassero quale medicinale dovevo somministrare a quale paziente.
«Come avrà fatto ad ammalarsi anche lui?» domandò il cuoco, perplesso, appena prima che varcassi la soglia della cucina.
Effettivamente non mi sarei mai aspettata che un orso polare potesse prendersi l'influenza. Soprattutto non uno come lui.
«Me lo chiedo anche io...» risposi pensierosa, per poi scuotere la testa e dirigermi dal Visone.

Lost girl - ONE PIECEWhere stories live. Discover now