Prologue.

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Quando ero una bambina, la pioggia per me significava soltanto passare ore ad osservare le gocce che si rincorrevano, si fondevano e si sparavano nuovamente sul vetro della nostra vecchia jeep color antracite. A volte, io e mio fratello ci divertivamo persino a scommettere su quale delle goccioline avrebbe raggiunto per prima la guarnizione nera del finestrino. Vincevo sempre io.

Era un passatempo stupido, ma era uno dei pochi che mi rimaneva, visto che io e la mia famiglia viaggiavamo molto e non restavamo quasi mai nello stesso posto per più di sei mesi. Forse era per quello che non avevo amici; o forse era semplicemente perché ero una ragazza strana, taciturna e solitaria.

Ad ogni modo, la cosa non mi pesava: finché avessi avuto i miei libri e la mia musica, sarei sopravvissuta. In fondo, già lo avevo fatto una volta.

Continuai a collegare la pioggia a quei miei ricordi di infanzia anche quando crebbi. Continuai a farlo fino a quel giorno.

Era il 27 luglio 2013; una giornata insolitamente fredda ed uggiosa, per essere piena estate.

Quella mattina aveva iniziato a piovere molto presto e, nonostante fossero le due e trentasette del pomeriggio, ancora non aveva smesso.

Me ne stavo rannicchiata sul sedile posteriore con le solite gigantesche cuffie Wesc nere a coprirmi del tutto le orecchie. Colton era all'allenamento di basket e a me toccava accompagnare mamma e papà a casa di zia Ruth, una donna un po' svitata che non ricordava mai il mio nome.

Staccando per qualche secondo gli occhi dal finestrino, notai che mia madre stava agitando una mano di fronte alla mia faccia, nel tentativo di attirare la mia attenzione. Con uno sbuffo, feci scivolare le cuffie sul collo.

«Tuo fratello ti ha parlato del fatto che tra un mese andremo a vivere in Scozia?» mi domandò, con entusiasmo.

Alzai le spalle, tornando a scrutare le gocce sul finestrino. Sai che novità, ci trasferivamo di nuovo. Ma questa volta, in un altro continente, per giunta.

«Non sei felice di lasciare il Canada e visitare un posto tutto nuovo?» intervenne mio padre, scrutando la mia reazione dallo specchietto retrovisore. «Sai, mia sorella Beth vive lì. Sono sicuro che la adorerai.»

Non ricordavo nemmeno che mio padre avesse una sorella, figuriamoci essere entusiasta di conoscerla.

Vidi i miei scambiarsi un'occhiata preoccupata. Sapevo a cosa stavano pensando: non ero mai stata una ragazza facile, socievole o particolarmente incline a fare nuove esperienze; esattamente il contrario di mio fratello maggiore, Colton.

Dovunque andassimo, lui entrava in almeno tre club scolastici, si iscriveva sempre ad un nuovo sport ed andava ad almeno due feste alla settimana; mentre io restavo a casa, sotto la mia coperta di pyle preferita a leggere un libro o a guardare un film in streaming con il mio vecchio computer Acer, che ormai non ce la faceva quasi più. Ma nonostante tutto, io e mio fratello eravamo piuttosto legati: io gli davo consigli sulle ragazze e lui mi portava sempre i biscotti cookies quando tornava dalle feste, anche a costo di doversi fermare a comprarli appositamente in un supermercato che restava aperto fino a tardi. Non glielo avevo mai chiesto, ma lui lo faceva ogni volta, da quando aveva tredici anni.

«Mi hai sentita?» domandò mia madre, con le sopracciglia sollevate.

Mi riscossi improvvisamente e la guardai con la mia solita espressione stanca. «No, puoi ripetere?»

Lei scosse la testa, rassegnata. «Ti ho solo chiesto di ricordarmi di prendere il latte prima di tornare a casa.»

Non le diedi una risposta e mi voltai pigramente verso destra.

Shiver || Michael CliffordWhere stories live. Discover now