12. Scoprendo la città dei sogni

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Il suono acuto di un clacson mi svegliò dall'unico sogno che ricordavo di quella prima notte a New York. Imprecai rivolgendomi alla finestra, mentre immagini sbiadite scorrevano nella mia testa. Nel mio sogno vivevo ancora a Portland e pedalavo sulla mia bici, lungo il porto della città, alla ricerca di un lavoro.

All'improvviso il mondo attorno a me si appannò, con le dita accarezzai le guance bagnate dalle lacrime. Perché stavo piangendo? La testa mi doleva. La malinconia, la nostalgia verso casa mi stava divorando. Chiusi gli occhi e provai a immaginare il mio amico a fianco a me, mentre mi teneva tra le sue braccia. Non riuscivo a capire se quella fantasia potesse rappresentare un conforto o un male.

Era un male pensare al passato? Era un male pensare a ciò che avevo lasciato a Portland? Non lo sapevo, ma immaginare Steven accanto a me aveva placato per qualche istante la mia voglia di piangere.

Ancora assonnata cercai di mettere a fuoco la stanza, mi sembrava di essere intrappolata nello scenario di un altro sogno. Di fronte a me scorsi la foto di un bambino dallo sguardo vivace e furbo, non la mia scrivania, non la mia macchina da cucire, ma una foto e un armadio in noce.

Mi sollevai dal letto e, con la schiena indolenzita, accarezzai la mia coniglietta, ascoltai i rumori che provenivano dalle altre camere. Lo scricchiolio del parquet, una porta che si chiudeva, il tintinnio di un cucchiaino contro una tazza. Probabilmente erano già tutti svegli.

Frustrata com'ero, presi senza guardare una maglietta dalla valigia assieme ad altri indumenti e mi affrettai a raggiungere il bagno, che purtroppo era già stato occupato. La voce stridula di Louise mi fece sussultare, facendomi rimpiangere i pasticci quotidiani di nonno Gerard, almeno lui non urlava di prima mattina.

«Belle, tesoro come hai passato la notte?»

Avevo due opzioni: dirle la verità o ignorare la sua domanda. Sì, ero parecchio irritata, ma il buon senso mi diceva che non sarebbe stato molto carino ed educato mandarla a quel paese, così mentii: «Benissimo, grazie.»

«Mi fa piacere, posa i tuoi vestiti e raggiungimi in cucina, farai dopo la doccia!»

Mi lanciò un occhiolino e rabbrividii al pensiero di dover fare colazione con quella donna... Sembrava tanto un sergente esaltato, che lanciava ordini a destra e a manca.

«Ehi, tutto bene? Mia madre ti sta importunando?» udii Yvonne alle mie spalle.

Sì, e anche tanto! Avrei voluto rispondere, ma non lo feci. Mi voltai a guardarla. Come faceva a essere carina anche in pigiama?

«Tua madre mi ha "invitata" a seguirla, presumo per la colazione» pronunciai invece.

«Bene, andiamo allora... Porta anche Daphne se vuoi, così le diamo qualche verdurina.»

Riposi i miei vestiti nella stanza e, con Daphne in braccio, mi accinsi a raggiungere Yvonne che mi stava aspettando in corridoio. Con lei mi sentivo un po' meno a disagio, forse perché al contrario della madre non emetteva gridolini e sorrisi da ebete.

Arrivate in cucina, sentii un buon odore di biscotti al cacao appena sfornati. Louise aveva addobbato la tavola con cereali, marmellata, fette biscottate, latte, caffè e frutta. Quella cucina sembrava una mensa. Mi accomodai vicino a Yvonne e lasciai Daphne libera di passeggiare per la stanza. Il sergente Louise diede della cicoria fresca alla mia coniglietta, era gentile da parte sua occuparsi anche di Daphne.

«Stamattina andrò a comprare delle verdure e del fieno. Mi dispiace recare fastidi» dissi imbarazzata.

«Non dirlo neanche per scherzo, non dai alcun disturbo e non preoccuparti per le verdure, Nathan ha un piccolo orto nel retro della casa.»

La Ragazza che cuciva sogniWhere stories live. Discover now