Capitolo 46 - Non-vita

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Sette giorni.

Centosessantotto ore.

Diecimila-ottanta minuti dopo.

Guardo il soffitto bianco della sua camera alla Trojans da un tempo infinito.

Un periodo intervallato soltanto da lacrime e singhiozzi.

Sono paralizzata nel suo letto dal giorno successivo al funerale.

Non è mai tornato.

Non ha mai chiamato.

Non so dove sia.

Non so neanche se sia ancora vivo.

Non fanno altro che ripetermi che è già successo, che non è la prima volta, che tornerà... non ero pronta. Sapevo che un giorno tutto ciò sarebbe potuto accadere, ma non credevo di ritrovarmi a vivere l'inferno così presto.

Quando sfiori il cielo con un dito, non devi mai dimenticare che ciò non durerà per sempre e che, ben presto, ti ritroverai a lottare con le fiamme.

Compongo ormai a memoria, senza dover neanche guardare in direzione dello schermo, il suo numero. Un paio di squilli e poi, l'ennesima voce meccanica mi informa che «il numero da lei chiamato potrebbe essere spento o irraggiungibile».

Premo sul registro chiamate e clicco su un altro contatto.

Aspetto qualche secondo prima che una voce metallica risponda. Un tempo era così familiare, oggi sembra quasi quella di un estraneo.

«Eva» sospira.

«Luke» mi sforzo di parlare, ho la gola fin troppo secca. Negli ultimi giorni ho cominciato a rifiutare anche l'acqua, se non fosse per il bicchiere che mi costringono a bere ogni sera, sarei già morta.

«Te la passo» pronuncia senza il bisogno che io gli chieda nulla.

«Ehi» un'altra voce riempie il silenzio della stanza.

«Beth, hai avuto modo di pensare? Qualunque cosa va bene».

«Eva, vi ho già detto tutto quello che ricordo. JJ e Jaimie lo sanno, cambia sempre, è intelligente abbastanza da diventare un fantasma quando non vuole essere trovat-»

«E se fosse morto?» la interrompo, cercando di trattenere le lacrime che stanno per fuoriuscire nuovamente dai miei dotti lacrimali.

«Non lo è! È di gran lunga più semplice trovare una persona morta che una viva... fidati di me» mi esorta ancora una volta. La nostra conversazione è diventata ormai sempre la stessa, ogni giorno appena sveglia - se quello che faccio di notte possa effettivamente definirsi dormire - la chiamo, chiedendole novità su un possibile luogo in cui poterlo trovare.

«Oggi non eri a lezione, di nuovo... che cazzo stai facendo?» una nota di rimprovero si fa spazio nella sua voce atona.

«Lo sto aspettando» rispondo di getto, quasi fossi una pazza squilibrata e non avessi il timore di mostrarmi come tale.

«Io non voglio ripeterti sempre le stesse cose, ci sono passata anche io... non puoi fare così! Se continui ad aspettarlo, finirai con il farti davvero male»

«Lo so. Ciao Beth» attacco la chiamata prima che possa trasformarsi nell'ennesima ramanzina. Ormai chiunque non fa altro che dirmi le stesse cose, ma a me non importa... non mi frega niente di mangiare, di bere, di dormire, di vivere, se non so se lui sta bene. Ogni cosa, la vita stessa, passa in secondo piano in momenti come questi.

Infilo la mano nell'intercapedine del letto, tra le doghe e il materasso. Riesco ad agguantare un flacone e a tirarlo su, dopo aver non poco combattuto per farlo passare in quello spazio esiguo.

The Art Of Being ArtWhere stories live. Discover now