Capitolo 16- Losing game

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Due settimane dopo

Sono sdraiata a letto da non so più quanti minuti, ore, giorni, forse addirittura settimane, nella stessa e identica posizione fetale. Rimanere così mi ha sempre calmata, fatta sentire al sicuro, protetta da tutte le insidie che la vita mi presentava. 

Il tempo è scivolato via tra le mie dita stanche, sofferenti anch'esse quanto me.

L'apatia che mi sono imposta da giorni però viene spezzata quando, all'improvviso, il suono del mio cellullare comincia a riecheggiare nella stanza.

Il mio nuovo numero ce l'ha una sola persona, perciò non posso fare altro che sporgermi verso il comodino, per prendere ciò che resta di un cellulare che ha pagato quasi con la vita la rabbia di un momento.

Sullo schermo compare la scritta: Videochiamata da Papi

Mi alzo sofferente dal materasso, cercando disperatamente di sistemarmi allo specchio e, prima di pigiare sul tasto verde, tento di schiarirmi la voce per non avere un tono che avrebbe una persona che non parla da ore, forse giorni.

«Hey papi» vedo comparire la sua faccia preoccupata sullo schermo.

Non ha neanche messo a fuoco il mio volto che già mi sta scrutando con un sopracciglio alzato.

«A Los Angeles non sono neppure le venti e sei già in pigiama?» avrei dovuto sapere che avremmo cominciato questa conversazione con un rimprovero.

«Eh sì, sono molto stanca» fingo uno sbadiglio.

«Eva da quanto non ti lavi i capelli?» rincara la dose.

«Papà mi hai chiamata per controllare quante volte faccio la doccia o per un reale motivo?» eludo la sua domanda, anche se, effettivamente, questa conversazione non è neppure iniziata che sta già cominciando a stancarmi.

«Vediamo... comincerei con il dire che stamattina mi sono svegliato con un messaggio di Luke che mi chiedeva quando saresti tornata dall'Italia... mmm, sei forse in Italia?» il suo tono diventa più acuto.

«Ok, uso "un senza fare domande*", me lo devi, ricordi?!» sfodero il migliore dei miei sorrisi, sbattendo teneramente le palpebre.

Lui scuote la testa in segno di disapprovazione.

 «Puoi semplicemente rispondergli "soon"?»

«Sì, ma solo per questa volta... io però voglio solo sapere se stai bene» la sua voce cambia tonalità, diventando improvvisamente più comprensiva. Avvicina la testa alla schermo per potermi vedere meglio, come se a tutti quei km di distanza potesse riuscire a intuire il mio stato d'animo solo guardandomi in volto.

«Sto bene, fidati di me» mi allontano leggermente, distogliendo lo sguardo, prima che lui possa leggervi tutta la sofferenza che mi porto dentro da giorni.

«Adesso ho lezione e devo andare, ma non finisce qui» porta due dita davanti agli occhi per poi spostarle verso la fotocamera a voler significare ti guardo.

«Ciao papà, ti voglio bene» mando un bacio, aspettando che lui lo raccolga come quando ero piccola.

«Anche io pallina, tanto» fa esattamente il gesto che mi aspettavo facesse, agguanta quello che finge essere il mio bacio e lo porta al petto.

Quando stacco la chiamata, lancio il telefono sul letto di Kate e crollo sul letto, sospirando pesantemente. Sono chiusa ormai da settimane in questa camera, non sono più riuscita a uscirci da quel giorno. Ho deciso di fingere -per evitare un confronto con Luke- una mia improvvisa partenza per l'Italia e con una scusa sono anche riuscita a convincere la segreteria della Usc a farmi seguire i corsi in modalità a distanza. Da quel giorno, a parte le mie due migliori amiche, non ho più visto nessuno. Le ragazze mi hanno riferito qualche novità e qualche informazione essenziale, come il fatto che Jay sia riuscito a prendere il massimo dei voti per entrambi alla prima presentazione del corso di storia, pur dovendo discutere da solo il nostro elaborato.

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