CAPITOLO 13

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"Sei una poveretta Charlotte! Non riesci a guardare oltre te stessa, non capisci me, non capisci tua figlia.. Sei solo un'idiota!" La voce di mio padre mi arrivò forte come una martellata nello stomaco, nel cuore, il suo tono freddo, violento, perfido.
"Basta!! Smettila! Non hai il diritto di dirmi questo! Non dopo tutto quello che mi hai fatto!! E dopo quello che ho fatto per te! Io ti odio ti odio!!" Mia madre parlava mossa dal dolore e sapevo che stava piangendo, che i suoi capelli biondi erano arruffati fra le sue mani e che stava tremando.
"Ma smettila Charlotte! Sapevi che non ti amavo, non ti volevo.. Ma tu hai voluto avvicinarti al fuoco e ora sei bruciata! Ti sta solo bene!"
"Staremo meglio senza di te! Sporco bastardo, ci hai distrutte! Io ho lasciato tutto per te, per la tua felicità,dimenticando la mia... Perché la mia eri tu! " Parola dopo parola, mi trafissero il costato fino al cuore, fino a farlo esplodere dal dolore. Percepivo le cattiverie che si dicevano, ma non potevo coglierne i contenuti, erano troppo dolorosi e si nascondevano immediatamente dietro il muro, il mio muro, impedendomi di analizzare ciò che stavo sentendo.
"Muori Troia! Questo sei perché..." Non sentii più nulla. Un paio di grandi mani si erano posate sulle mie orecchie stringendomi la testa, in modo da non farmi sentire il seguito di quelle urla. Gli occhi di Harry, di cui avevo completamente dimenticato la presenza, fissati nei miei, il mondo intorno a me immobile. Volevo sentire il seguito di quella terribile litigata, di quello scambio di perfide opinioni, ma non mi opposi alle mani di Harry a farmi da cuffie. E poi.. Volevo davvero sentire quello che i miei genitori avevano da dirsi in quel momento? Forse no. No, davvero.
Sentivo le sue mani tremare sul mio viso, i suoi occhi sobbalzare mentre le voci dei due "adulti" nella casa continuavano ad arrivargli chiare e scandite, la sua persona vacillare mentre tentava di essere forte anche per me. Sapevo che non era forte quanto cercava di dimostrare, ma ero troppo debole in quel momento, in quel periodo, per impedirmi di ricevere anche solo un grammo di forza proveniente dall'esterno, che era un passo in più verso la salvezza.

In quel momento avrei voluto piangere. Più di ogni altra cosa avrei voluto piangere. Piangere. Piangere tanto da buttarmi per terra, tanto da mettermi le mani nei capelli e urlare. Piangere finché il labbro inferiore non si fosse rotto, per la pressione dei miei denti; piangere finché i singhiozzi non si fossero trasformati in gemiti e poi solo in respiri; piangere finché le lacrime non mi avessero solcato così tanto il viso da formare delle cicatrici; piangere finché anche l'ultima goccia di dolore non si fosse sollevata dal mio petto e mi avesse lasciata nuovamente respirare; piangere finché le mie urla non avessero lacerato la mia gola e mi fossi trovata senza voce; piangere finché gli occhi non si fossero gonfiati tanto da non vedere; piangere semplicemente finché non fossi svenuta e chissà, magari non mi sarei più risvegliata.
Eppure non feci nulla di tutto ciò. Rimasi immobile, una statua, apparentemente priva di emozioni e sentimenti, una morta vivente, completamente assente e vuota. Non mi mossi neppure quando le braccia calde di Harry mi avvolsero, facendomi rilasciare un respiro, che sembrava essere nato insieme a me. Vidi solo nero, sentii ancora qualche voce, ma sommessa e delicata, e percepii il profumo emanato da Harry. Poi nulla e pregai perché quel nulla durasse il più possibile, perché la realtà che mi attendeva al mio risveglio sarebbe stata peggiore del peggiore degli incubi.

***

Camminavo in casa mia, senza una direzione precisa, guardando le foto di quando ero piccola, del matrimonio dei miei genitori, dei cugini vari, delle vacanze al mare e in montagna. L'occhio mi cadde su una scheggiatura del legno della cassapanca, ricordai di esserci andata a sbattere da piccola con il trattorino di plastica verde, che i miei genitori mi avevano proibito di usare in casa. Realizzai di essere a casa Mia, la casa di Mullingar e ne fui estasiata. Corsi in cucina, credendo di trovarci mia madre, ma lei non c'era. Al suo posto uno scrigno, tipo quelli dei film; ero terribilmente curiosa e volevo aprirlo, ma non sapevo dove trovare la chiave. All'improvviso, come un lampo, mi colpì il ricordo di avere la chiave appesa al collo, la afferrai e mi avvicinai allo scrigno. D'improvviso lo scenario attorno a me cambiò e mi ritrovai in una sala d'aspetto, quelle degli ospedali, ma non ci feci troppo caso e infilai la chiave nella serratura. Un giro, due giri, tre giri e il lucchetto cadde, lasciando il forziere libero di essere aperto dalle mie mani avide. Stavo per aprirlo quando un pianto disperato attanagliò la mia attenzione. Una donna grassoccia, con un camice bianco ed una cuffietta verdognola si avvicinò a due figure di cui non riuscivo a scorgere il viso. La donna teneva una bambina dagli occhi verdi su un braccio, mentre nella mano libera stringeva la cornice con la foto del matrimonio dei miei genitori. Un momento, un rumore sordo e la foto era per terra, con il vetro in frantumi.
Mia madre, ora la riconoscevo, si chinò immediatamente e si preoccupò di mettere insieme i pezzi, alla meno peggio. Nel frattempo mio padre, l'altra delle figure prima a me sconosciute, si affrettò a prendere in braccio il neonato e a stringerselo al petto, non curandosi di aver calpestato i vetri e averli così frantumati in ulteriori pezzetti. Quando mi voltai il forziere era ancora li, ma nuovamente chiuso e la chiave era persa; o meglio la potevo vedere, ma non prendere: Niall era li a pochi passi da me, stringeva la chiave fra le sue mani e non mi guardava negli occhi.
"Niall!" Tentai di gridare, ma la mia voce usciva strozzata e lui continuava ad allontanarsi, insieme alla chiave, diventando una figura sfocata.
"Niall!" Ripetei.
"Niall!!" Urlai e aprii gli occhi.

"Mer!! Mer svegliati!! stai bene?" La voce di Harry mi invase l'udito e strinsi gli occhi, più volte, prima di riuscire ad aprirli. Ero impregnata di sudore e di lacrime per l'agitazione che quel sogno mi aveva procurato. Il luogo intorno a me mi confuse e lasciò perplessa per qualche minuto, prima di capire che mi trovavo in una stanza a me estranea: ero su un letto matrimoniale, con addosso uno spesso piumone azzurro, di fianco al letto un tappeto che richiamava i colori della stanza in diverse tonalità; di fronte al letto una scrivania e nella parete di sinistra una finestra, i cui vetri erano coperti da una tendina blu. Una poltrona era posizionata di fianco al letto, mentre Harry si trovava in piedi a pochi passi da essa, fissandomi con occhi sgranati e preoccupati.
"Sto.. Bene credo" la mia voce strozzata, incerta, quasi irriconoscibile. Feci mente locale degli avvenimenti della notte precedente, o almeno credevo fosse la notte precedente, poiché non riuscivo a capire quanto avessi dormito e cosa fosse successo dopo aver sentito i miei genitori imprecare l'uno contro l'altra. Immagini di vetri rotti e di pianti di neonati si ripetevano nella mia mente, incatenandosi a quelle della macchina di mio padre nel viale e di occhi verdi e grandi mani a coprirmi le orecchie. Non riuscivo più a distinguere il sogno dalla realtà. Avevo bisogno di risposte.

Finding HappinessWhere stories live. Discover now