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L'ultimo pasto era già stato servito, senza intoppi

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L'ultimo pasto era già stato servito, senza intoppi. Non c'era stato nessun tipo di mormorio, nessuna rissa. Era già passato poco più di un mese da quando alcuni detenuti se le erano date di sante ragioni, soltanto per liberare la rabbia repressa. O per accaparrarsi l'ultimo pezzo di pane. Sì, a volte funzionava. Ma non era così efficiente, come ben pensavano.

Non erano della stessa opinione le guardie, impegnate in quei turni; il loro compito era non lasciare che si uccidessero a vicenda. Del resto, le disgrazie erano imprevedibili. E se non si sarebbero uccisi tra di loro, prima o poi la pazzia li avrebbe aiutati da soli. Lui però non la diede vinta, a quegli idioti in divisa. E per quanto quegli sguardi rozzi lo squadrassero da capo a piedi, non sentiva il peso della minaccia incombere su di sé. Poteva vedere chiaramente il tormento dentro i loro occhi, la malsana ammirazione che alcuni provavano al suo passaggio.

Secondo i suoi calcoli, non mancava poi molto. Lui era tranquillo, forse fin troppo. Quel giorno, esattamente alle diciassette in punto, sfiorò la sua famosa moneta d'argento, l'unico oggetto che gli avevano consentito di tenere. Dopo aver studiato a fondo il suo caso, la polizia comprese il perché portasse sempre con sé quella moneta; era semplice.

Lasciava decidere alla casualità il destino di chi gli era andato contro.

Testa, li lasciava vivere. Croce, la morte li sarebbe giunta da loro.

La sua reputazione perciò, valeva più di qualsiasi umiliazione inflitta. Anche se Blackjack annuiva e seguiva alla lettera ciò che i piani alti gli impartiva, era solo per fare buon viso a cattivo gioco. Aveva deciso di starsene buono per ricaricarsi. Toccò ancora con i polpastrelli quel pezzo di metallo come se, in qualche modo, potesse trovare una risposta alla sua condizione. Una risposta che tutti pretendevano. Questa era la cruda realtà, e nessuno poteva emettere qualche parola di conforto. Nemmeno vedere i propri familiari bastava.

Quanti padri di famiglia aveva visto autocommiserarsi, chiedersi come stessero vivendo i figli, sapendo quanta merda ricopriva il loro nome. Lui però, non si sarebbe mai posto questo problema, dato che nessuno l'avrebbe pianto, se mai avessero architettato una congiura a suo discapito.

Aspettava solo il momento giusto, bastava soltanto aspettare.

L'aveva fatto per tutta la vita. Aspettare qualche ora in più, non avrebbe fatto nessuna differenza. Diede uno sguardo veloce al suo orologio, attaccato al polso. In quel silenzio tombale, udì lo scorrere delle lancette. Al quarto rintocco, portò due dita alla bocca, spalancandola prima di fare abbastanza pressione da provocarsi un conato di vomito. Girò il busto dall'altro lato del letto, contro il pavimento, e collassò al suolo. Rigettò quel misero pranzo che aveva consumato solo poche ore prima. Tossì l'attimo dopo e portando la manica della tuta alla bocca, cercando di pulirsi e di ignorare il brutto odore. Attirò l'attenzione del compagno di cella, e della guardia al di fuori. Come aveva sperato.

Aspettò di vederlo entrare, continuando poi la sua farsa.«Credo di non sentirmi bene.»bofonchiò.

«Cos'hai?»mormorò l'altro in tono burbero.

Portò un braccio in basso, stringendo di più la presa sull'addome, lasciando che la guardia si avvicinasse di più per controllare. Durò pochissimi attimi. Con una forza innata, sollevò il braccio, sferrandogli una gomitata al di sotto del mento. L'urto fu così forte che la tempia della guardia batté il muro dietro di lui. Perse conoscenza, riversandosi al suolo. L'altro detenuto, aveva assistito a tutta la scena e nonostante fosse più vecchio dell'altro, tenne gli occhi spalancati, ora puntati sull'altro. Non accennò a muoversi, incredulo su quello che era appena accaduto. In quel frangente, Blackjack fece leva sulle ginocchia alzandosi da terra e ricambiando lo sguardo per poi portare l'indice posto in verticale alla bocca, mimandogli di restare muto. Senza guardarsi alle spalle, notò immediatamente la porta sbarrata e corse fuori.

Non era stato poi così difficile.

Corse fuori con tutta la velocità di cui disponeva, come una zebra fuggiva via da una mandria di tigri impazzite, pronte a divorarlo. Un allarme scattò, facendo agitare le acque in cui lui stesso si era immerso. Non serviva essere un genio per sospettare che fosse stato l'uomo il quale aveva condiviso la cella fino a quel momento. Se ne sarebbe fatta una ragione. I rischi facevano parte del mestiere. Attraversò un lungo corridoio, mentre altre sirene preannunciavano ciò che sarebbe successo di lì a poco. Secondo i suoi calcoli, le guardie avrebbero impiegato esattamente una ventina di minuti a raggiungere la sua cella, dieci secondi a capire cosa fosse successo e altri venti minuti per corrergli dietro e sperare di prenderlo. La sua materia grigia poteva definirsi quasi arrugginita, ma non troppo, a giudicare da come stava giostrando il piano di fuga. Arrivò finalmente alle pendici di un tubo rotto, scavato alle estremità, consentendogli di passare attraverso.

Quando James lo aveva rassicurato, con l'appoggio offerto dai Kalasar, avrebbe rivisto di nuovo la luce del sole. Quel che si diceva sul loro conto era vero: avevano spie ovunque. Il famoso Blackjack sarebbe tornato a diffondere il caos come non aveva mai fatto prima. Strisciò per tutta la lunghezza del tubo, aiutandosi con le braccia e chiedendosi quanto mancasse ancora. La pazienza non era il suo forte. Respirò ancora, mentre l'eco delle sirene lo abbandonava, insieme ai passi svelti delle guardie che lo stavano sicuramente cercando in ogni dove. Era fatta. Dopo aver rivissuto un lungo attimo carico di tensione, l'evaso si concesse una boccata d'aria, respirando la libertà che gli avevano strappato via tempo addietro.

Si diede uno slancio finale e poi riuscì a vedere la faccia di James attenderlo dall'altra parte. Con uno scatto fulmineo, afferrò le braccia dell'amico, tirandolo fuori e mormorando a tratti un "Cazzo, era ora", aiutandolo ad uscire e a toccare terra. Senza altre esitazioni, il ragazzo scampato al pericolo, si liberò di quei vestiti logori, mentre James gli offriva una giacca da poter indossare. Blackjack non si lasciava sfuggire nulla; alle spalle dell'amico, avvistò una macchina nera decappottabile. Prima che James potesse dire altro, corse verso di essa, salutando su e mettendosi comodo. James lo seguì a ruota, inserendo le chiavi nell'apposita serratura, schiacciando sull'acceleratore e allontanandosi il più possibile da quell'inferno fatto di soli mattoni.

Dopo aver cambiato marcia, recuperò una sigaretta dalle tasche, passandola a Blackjack, come a volerlo premiare per lo sforzo appena compiuto. Poi gli passò l'accendino, gli occhi fissi sulla strada davanti a sé.

«Ce ne hai messo di tempo.»si lamentò Blackjack, dopo il primo tiro.

«Meglio tardi che mai.»

«Dove sono gli altri?»

«È tutto sotto controllo.»si limitò a dire, attraversando un campo di chissà quanti ettari per poi sbarcare sulla statale.

L'avrebbe condotto in un posto non troppo affollato; per ora, dovevano volare basso.

«Che cosa farai, adesso?»domandò di punto in bianco il suo salvatore, svoltando in una strada secondaria, costellata da lampioni altissimi.

Sfrecciarono a una velocità media, perché l'ultima cosa che James doveva fare, era farsi beccare da qualche pattuglia, e quindi rischiare di essere segnalato alle altre autorità. Le luci poste al lato sinistro, illuminarono il viso dell'uomo senza nome, mentre fumava la sua sigaretta come se fosse un normale venerdì sera. Come se fossero due semplici anime che stavano ritornando a casa dopo aver fatto serata.

«Mi vendicherò su quel bastardo che mi ha incastrato.»

L'amico alla guida girò il capo verso di lui, ma durò un millesimo di secondo, confuso dalle sue parole aspre, per ricollegare il tutto.«Jeon Jungkook?»ma certo, non poteva essere diversamente.

«Proprio lui.»

HOMICIDA ― taekookOnde histórias criam vida. Descubra agora