2. Lavinia ♀ L'Incubo

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Alla stazione Termini regna il caos. Il mio treno è in ritardo e per poco non perdo la coincidenza. La carrozza su cui sono salita ha i sedili logori, c'è gente stipata ovunque e la puzza è insopportabile. Trascinandomi dietro l'enorme trolley con cui sono partita trovo finalmente un posto in cui sedermi. La matrona accanto a me è impegnata in un'accesa conversazione telefonica con il marito e la sua vocetta stridula rimbomba all'interno del vagone. Probabilmente a quest'ora tutto il treno sa dei suoi problemi coniugali.

Cerco di sfuggire a quella situazione, mi infilo le cuffie dell'I-pod, alzo il volume e inevitabilmente penso a mia madre.

Quella sera stessa, dopo che Martina era tornata a casa, l'avevo raggiunta in cucina mentre preparava la cena e le avevo detto della lettera di ammissione alla San Bartolo. Lei aveva preso sorprendentemente bene la notizia. «È un'ottima opportunità per te e per il tuo futuro. Non devi fartela scappare» aveva sentenziato. Poi si era offerta di prendersi qualche giorno di ferie e venire al campus con me, ma il suo capo era stato irremovibile: erano in piena stagione turistica e non poteva fare a meno di lei. Mia madre lavora come caposala nel miglior ristorante del paese, ed è anche una esperta sommelier.  Perciò mi aveva accompagnata alla stazione, mi aveva stretta forte e raccomandato di essere prudente. «Vivere da sola in un campus universitario sarà un'esperienza nuova per te, assaporerai per la prima volta la vera libertà. Sei una ragazza assennata, Lavinia, perciò ricordati di agire come tale.» Troppo emozionata per parlare, io avevo fatto segno di sì con la testa, avevo annusato per l'ultima volta il suo buon profumo di lavanda e avevo raggiunto il mio posto a bordo del treno. Lei era rimasta in piedi sulla banchina a fissarmi finchè il Frecciarossa non aveva lasciato la stazione.

Nonostante il trambusto che regna intorno a me, mi sono appisolata, perciò sono grata alla mia vicina – quella che ha passato il viaggio a litigare col marito al telefono – quando mi scrolla senza tanti complimenti per chiedermi se devo scendere.

Mi alzo sfregandomi gli occhi stanchi e tirandomi dietro quel dannato trolley che ho riempito fino a scoppiare (quanto me ne sono pentita!) e raggiungo più in fretta che posso l'uscita della stazione. Dovrebbe esserci una navetta dell'università, ma con disappunto scopro che è partita senza aspettarmi, perciò mi tocca prendere un taxi.

Il tassista conosce la strada e dopo avermi rivolto qualche domanda alla quale rispondo a monosillabi capisce che è meglio lasciarmi stare. Ben presto ci lasciamo alle spalle le vie più trafficate e percorriamo una strada statale immersa nel verde. La campagna laziale è ricca e rigogliosa e intorno a me scorgo campi coltivati, masserie e boschetti, tanto che mi sembra di essere entrata in un'altra epoca.

La sede dell'università sorge ai confini del Parco dei Castelli Romani e dista solo qualche chilometro dal più vicino centro abitato.

Il sole sta tramontando quando giungiamo ai cancelli di quella che sarà la mia nuova casa per i prossimi tre anni. Solo che non si vede alcun edificio. L'enorme cancello è circondato da alte mura che rivaleggiano con quelle di una fortezza. Noto una telecamera montata sulla recinzione che mi riprende mentre pago il tassista e mi guardo intorno, sperando che qualcuno si faccia vivo al più presto. Mentre ero in taxi ho avvertito l'università che stavo arrivando e mi hanno assicurato che avrebbero mandato un custode a prendermi. Controllo il cellulare ma scopro che non c'è campo. Un piccolo brivido mi corre lungo la schiena alla vista dei fanali del taxi che scompaiono dietro una curva. Sono completamente sola. Mi avvicino un po' di più al cancello e scopro che è aperto, perciò mi infilo dentro, tendendo l'orecchio per captare qualunque rumore che possa segnalarmi la presenza di qualcuno – il fantomatico custode ad esempio – che mi porti via di lì. Passano i minuti, poi mezz'ora, ma non arriva nessuno, perciò in mancanza di alternative decido di avviarmi a piedi. Dopotutto quanto potrà essere lontano?

Percorro l'ampio viale fiancheggiato da una doppia fila di cipressi, maledicendomi ancora un volta per non aver lasciato a casa almeno la metà della roba che ho messo nel trolley, sperando ad ogni curva di imbattermi nell'edificio che ospita l'università. Le ombre si allungano intorno a me e sulla mia destra scorgo le bianche sponde di un lago. Sciami di insetti si sollevano ronzando dall'acqua. Un uccello bianco e nero sbuca all'improvviso dai cespugli facendomi trasalire. Saltella un po' e poi spicca il volo.

Se non fossi così stanca potrei quasi apprezzare la tranquillità del luogo e il paesaggio bucolico, ma sono affamata e non vedo l'ora di liberarmi della pesante valigia che mi sto tirando dietro da stamattina.

Come se non bastasse, ho la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. Forse è solo la situazione in cui mi trovo a suggestionarmi – il silenzio che regna sovrano e questo viale alberato che sembra non finire mai – ma ogni tanto odo distintamente un fruscio. Allora mi fermo e mi guardo attorno, sperando di veder comparire qualcuno, ma puntualmente il rumore si interrompe e io mi ritrovo a chiedermi se me lo sono soltanto sognato. È inquietante e comincio ad averne abbastanza, soprattutto adesso che il sole è tramontato e l'oscurità sta calando rapidamente.

Che fine ha fatto il custode? Non doveva venire a prendermi? La rabbia prende il sopravvento sulla stanchezza. Appena arrivo in facoltà mi sentiranno. Se mai ci arriverò a questo punto.

Un rumore diverso dagli altri mi fa sobbalzare. Sembrava un grido a stento trattenuto. Osservo i dintorni cercando di individuarne la fonte, ma il buio e così fitto... e allora li scorgo. Due puntini luminosi sbucano da dietro a un tronco, oltre il bordo della strada. Man mano che i miei occhi si abituano all'oscurità distinguo anche una sagoma. Sembra un animale, forse una scimmia? E cosa ci fa una scimmia in un campus universitario? Mentre mi interrogo cercando di trovare una spiegazione, la creatura esce allo scoperto ed emette un verso raccapricciante che mi fa venire la pelle d'oca. Mi viene in mente l'Incubo, il quadro del celebre pittore Johann Heinrich Fussli, in cui il sonno della fanciulla è turbato dalla presenza di un mostro grottesco. E forse è proprio così, sto sognando.

Il terrore mi paralizza, ma incubo o no, quando l'essere si muove nella mia direzione non ho esitazioni: mollo il trolley e comincio a correre. Sento di nuovo quel grido che mi gela il sangue, ma non ho la forza di voltarmi, tutte le mie energie sono concentrate nello sforzo di mettere un piede davanti all'altro. Meno male che indosso delle scarpe da ginnastica.

La ghiaia scricchiola sotto le suole, ma per quanto sia veloce ho l'impressione che l'inseguitore guadagni terreno. Sono sul punto di perdere le speranze e cedere alla disperazione, quando sento il rombo di un'auto. È alle mie spalle, perciò mi volto e mi precipito in mezzo alla strada per segnalare al conducente di fermarsi, ma sono proprio dietro a una curva.

Quando il SUV appare nel mio campo visivo, capisco di aver compiuto una mossa avventata. È lanciato a forte velocità, non riuscirà a frenare in tempo per evitarmi. I secondi rallentano, mentre i volti di mia madre, di Martina, dei miei compagni di scuola e perfino quello di mio padre mi sfilano davanti agli occhi uno dopo l'altro. Ho solo diciotto anni e sto per lasciare questo mondo.

Stringo le palpebre e mi preparo all'impatto, ma sento solo un forte spostamento d'aria, stridio di freni e una puzza tremenda di gomma bruciata. Poi la sera torna silenziosa e io capisco che sono ancora viva.


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