"Io..io non volevo amore mio. Ti giuro che..che non ho mai voluto. Non ero io a decidere,era lei. Non potevo desisterle, aveva il controllo su tutto,su di me." disse, affannato, gli occhi stanchi, il viso pallido e provato. Stringeva con forza il lenzuolo bianco, un gesto pieno di sofferenza, di chi si aggrappa disperatamente alla vita, con il cuore e la mente. Di chi si é accorto tardi dei propri errori e vuole rimediare,ma non ne ha più il tempo. Quel fastidioso odore di ospedale mi inondava le narici, mi dava il voltastomaco. Singhiozzavo pesantemente, le lacrime continuavano imperterrite a rigarmi le guance.
"Non piangere,non piangere più bambina mia,non farmene andare cosi, ti prego. Non é questa l'immagine che voglio poter portare con me. Voglio vederti sorridere, voglio sapere che starai bene, voglio poter dormire tranquillo."
"Non..non andare." singhiozzai.
"Mi dispiace."
"No..no no! Ti prego!"
"Mi..mi dispiace.."
La sua mano si fece fredda tra la mia, piccola e rosea, il petto rimase come pietrificato, gli occhi si spensero, vuoti, privi di emozioni..privi di vita.
"NO. NON ANDARE! NO!"

«NO!» mi svegliai di soprassalto, il respiro pesante, la fronte imperlata di sudore, le mani tremanti. Una lacrima mi solcò il viso, piccola, silenziosa. «..no..» sussurrai. Mi portai le mani sul volto, mentre cercavo di destabilizzare il cuore che si infrangeva con veemenza contro il petto, come le onde che sbattono contro gli scogli.
Mi lasciai ricadere con la testa sul cuscino, amareggiata dal ricordo di quel giorno. Avevo stretto per ore il suo cadavere, incapace di lasciarlo al suo lungo sonno. Non avrei mai voluto, eppure dovevo. "Non volevo, non ho mai voluto. Era lei a decidere.."
Già,lei. Me lo ripeteva sempre, ogni volta che lo faceva. Me lo ripeteva anche quando ero troppo piccola per capire, ma comunque abbastanza ingenua da crederci. Voleva che sapessi che non lo faceva per sua volontà,ma per un comando interno,un ordine del cervello, provato, confuso, piegato al volere della cocaina...era lei.
Ricordavo ogni singola volta, mi afferrava, mi stendeva sul letto,al buio, abbassava le tapparelle e mi spogliava. Mi toccava, mi accarezzava la pelle, mentre il suo alito pesante mi otturava il naso. Trattenevo il respiro, come in apnea, non pensavo a niente, pregavo. Sopprimevo la paura, ingoiavo a vuoto, la gola secca, la paura negli occhi di una ragazzina ancora solo tredicenne.
Riaprii gli occhi, con l'intenzione di mandare via quelle immagini dalla mia mente.
«Brooklyn?» la porta della camera si aprii di scatto, rivelando la figura assonnata di mia mamma. «Ancora a letto?»
«E?» chiesi distrattamente.
«Ti conviene alzarti se non vuoi fare tardi.»
«Ah si..» dissi, vedendo l'orario sul display del cellulare. Mi scostai le coperte di dosso, di malavoglia,e mi alzai. La porta si richiuse, e mia madre sparì dietro d'essa. Sospirai.
i fiondai nella doccia, sotto il getto freddo dell'acqua. Alzai il viso, lasciando le goccioline libere di scorrermi sulla fronte, unendosi al sudore. I capelli inumiditi mi aderivano con morbidezza alla schiena, solleticandomi piacevolmente la pelle bagnata.
Era uno dei momenti della giornata che preferivo di più. Mi sentivo libera, in uno stato quasi di assenza con il mondo esterno. C'ero solo io e basta, non volevo dover pensare ad altro, quasi come in un black-out, un tasto d'accensione che momentaneamente non funziona. Durava poco, a volte talmente poco da non riuscire neanche a percepirli quegli effimeri attimi, eppure, tutto escluso, erano comunque attimi speciali.

Quasi a malincuore, fui costretta ad uscire dalla doccia. Mi vestii, indossai il cappotto, gli occhiali da vista e scesi velocemente le scale.
Mia mamma era seduta vicino al tavolo con una tazza di latte tra le mani, mi dava le spalle. Mi avvicinai e l'abbracciai da dietro. Le rubai un bacio sulla guancia.
«Io vado.» la informai, avviandomi verso la porta.
«Aspetta Brooklyn,non hai mangiato niente.»
«Si,beh..stamattina non ho appetito mamma.» dissi, secca, e uscii dalla porta, senza darle modo di ribattere.
Inspirai l'aria piena e concentrata, tipica dell'inverno detroiano. L'odore freddo e pungente mi solleticava delicatamente il viso. Chiusi gli occhi, lasciandomi trasportare dal turbinio di pensieri in cui m'ero insinuata, accompagnata da quello struggente e religioso silenzio che mi inghiottiva. E quasi ebbi la sensazione di sentirmi parte di esso, parte di quel paesaggio imbiancato. Un paesaggio all'apparenza morto, privo di vita, privo di tutto, un paesaggio vissuto e provato, dai costanti segni del tempo.
«Ci sei? Ehiii? Terra chiama Brooklyn..» riaprii gli occhi. Astrid era davanti a me, dava le spalle alla sua auto nera, fissandomi interrogativa.
«Buongiorno.» dissi solo. La superai e presi posto. Mentre salivo, potei percepire i suoi occhi ancora su di me.

Partimmo. Eravamo avvolte da un strano silenzio,c'era un' insolita area di tensione:non avevo voglia di parlare, non avevo voglia di fare proprio niente. Mi sentivo così infantile. Me l'ero presa tanto per un ricordo di più di 8 anni, eppure, ogni volta l'effetto era sempre lo stesso: dolore, paura, sensazione di puro raccapriccio.
«Brooke.» la voce di Astrid mi scosse, distraendomi dai miei pensieri. Voltai lo sguardo in sua direzione, aspettando che aggiungesse qualcosa. Alternava gli occhi dalla strada a me.
«Brooke.» ripeté.
Sospirai. «Astrid.»
«Brooke.» non aggiunse niente.

Sapevo cosa intendeva.
Non volevo darle spiegazioni.
Non ne ero dell'umore. Volevo solo che quella giornata passasse, rapida, impercettibile, che andasse oltre. Volevo solo non pensare a quanto successo, esattamente otto anni prima. Avrei dovuto, ne ero consapevole. Ma no...non volevo.

Frenò la macchina e girò la chiave.
Si lasciò andare sul sedile, sospirando.
Afferrai la maniglia della portiera e feci per scendere dall'auto,quando la mano di Astrid mi afferrò il polso. Mi bloccai, e mi voltai verso di lei. Impassibile, il viso velato di preoccupazione, gli occhi confusi.
«Brooklyn..»
Mi limitai a sorridere,affabile. Non era di certo uno dei miei migliori sorrisi, lo sapevo, ed ero convinta che anche lei lo sapeva. Ma quel sorriso non serviva a farle capire che stavo bene..quel sorriso serviva solo a dirle che non era niente di grave, e che, in un modo o nell'altro, non avevo voglia di parlarne. Ricambiò il sorriso, più tranquilla. Lasciò la presa sul mio polso e scendemmo dalla macchina.
"Grazie per avermi capita, Astrid." pensai.

ASSENZIO - AXENHTIUM Where stories live. Discover now