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I giorni li passavamo molto intensamente.
Buttavamo cose inutili, conservavamo ricordi e tenevamo altre cose per il minimo indispensabile.
Avevamo cambiato la predisposizione dei mobili, del tavolo e del divano. Volevano cambiare il più possibile per camuffare i ricordi e di metterci un po' del nostro.
Ormai quella era casa nostra e non più casa dei suoi genitori.
Non la definivamo una vera "convivenza", quella parola ci stava enormi addosso e ci faceva sentire quelli che non eravamo.
Perché lo sapevamo, eravamo piccoli, però avevamo il bisogno dei nostri spazi e di fare un po' come ci pareva. Avvertire quel senso di libertà che ti poteva solo far bene. O a volte chissà poteva farti male.
Eravamo stanchi, avevamo pulito polvere accumulata e non era di certo poca. Però ogni fatica ne era valsa la pena.
"Chi l'avrebbe mai detto" disse.
Eravamo accoccolati sul divano, completamente al buio e a guardare il cielo in lontananza. Era buio anche fuori e forse erano le quattro della mattina e per noi libertà significava anche quello.
"Io non di certo" rise.
La mia schiena era poggiata sul suo petto e sentivo qualche volta lui che mi stringeva un po' più forte.
"Noi siamo diversi dalle altre coppie" dissi io.
"Siamo un disastro"
"Un disastro bellissimo" ricordai le sue parole e risi. Era bella come situazione.
Noi eravamo diversi. Non era una cotta. Non era una botta e via. Era speciale. Era tutto serio e vero.
"La droga?" dissi ancora.
Non so come mi venne in mente, ma uscì così spontaneamente che non ci pensai.
Lo vidi irrigidirsi. Il respiro farsi più affannoso e sentivo sulla schiena il suo cuore battente contro la mia schiena.
"Che vuoi dire"
La sua voce tremava e a me vennero i brividi.
Lo guardai.
"Non hai più niente a che farci, vero?"
Sbuffò.
"Quante volte te lo devo dire? Che palle Arianna"
Mi fece alzare e di conseguenza si alzò anche lui.
Lo guardai bene. Aveva una faccia che a me non convinceva.
"Lo sai, un'altra possibilità tu da me non ce l'hai" dissi.
"Tu non ti fidi! E come faccio io ad essere più forte se non me ne dai occasione!"
Stava urlando. Forse aveva anche gli occhi lucidi. E giuro che odiavo vederlo così. Però io non ci riuscivo a credergli fino in fondo. Lo conoscevo. Lui era debole, facile da farsi trasportare e io sapevo che se ci fosse stata l'occasione lui ci sarebbe ricascato.
"Mi sono stancato Arianna! Mi sono stancato dei tuoi occhi che cercano di capire se sono pulito, sono stanco delle tue mani che toccano le mie braccia per vedere se c'è dolore, odio quando cerchi di entrarmi in testa" lo disse portandosi alla fine le dita sulla tempia.
"Sono stanco, che più mi stai addosso e più io crollo, io cedo. Senza le tue sicurezze io non posso farcela"
Chiusi gli occhi. Aveva ragione.
Io dovevo prestargli più fiducia ma come facevo.
"Tu non mi ami, Arianna"
"Ma che dici"
"Se non ti fidi non mi ami"
Mi sorpassò ed uscì.
Mi lasciò da sola, con l'amaro in bocca e con lo stomaco sotto sopra.
Andrea si sbagliava. Io lo amavo. Lo amavo tantissimo.
E forse era lui che non si fidava di me. Era lui che non si confidava.
"Io ti amo.."
Parlai a vuoto. Parlai a me.
Guardai alla mia destra lo scaffale con gli alcolici. C'era la tequila in bella vista. La presi.
Me lo concessi. Volevo farmi male. Perché mi odiavo e cazzo quanto lo feci.
Presi dei tranquillanti e li mandai giù bevendo il liquido.
Non so cosa successe poi. Però persi il controllo.
Non ero più in me.

Quando aprii gli occhi, la luce potente che penetrò dalla finestra, mi fece male agli occhi.
Ero distesa sul letto e cercai di capire come ci fossi arrivata dato che non ricordavo nulla.
Dopo che presi i tranquillanti con l'alcol non ricordai ne cosa feci e ne come mi sentii. Però da come mi faceva male la testa sapevo di dover attraversare i postumi di una sbornia.
"Arianna"
Girai lo sguardo e lo trovai sullo stipite della porta.
"Mi hai portata sul letto?"
"Sì"
Mi alzai a sedere, già sentivo tutta la testa girarmi e lo stomaco in subbuglio.
"Sei ancora arrabbiato?"
"Perché l'hai fatto?"
"Rispondi prima alla mia domanda"
Lui si sedette accanto a me e vidi i suoi lineamenti addolcirsi ed io mi tranquillizzai.
"So che vuoi proteggermi e so che mi ami"
"Andrea io ti amo e ho fiducia in te, credimi"
Sorrise. Però era uno di quei sorrisi spenti, forse forzati. Non mi credeva.
"Ora rispondi alla mia domanda" disse guardando le mie mani.
L'avevo fatto per sovrastarmi. Per placare il senso di colpa. E poi perché volevo un po' riprovare quella sensazione di impotenza che causava l'alcol, che mischiato ai medicinali creava una sottospecie di droga. Non dava dipendenza per fortuna.
"Non ho resistito. Tutti abbiamo delle debolezze" dissi.
"Butterò per sicurezza tutti gli alcolici"
Che credeva? Che io potessi diventare un'alcolizzata?
"Non berrò ancora, non ne ho intenzione"
"Basta poco ricaderci, basta la tentazione, la voglia"
Sembrava che stesse parlando per sé, perché guardò tutto tranne che me.
"Fa' come vuoi"
Mi alzai e mi pentii di averlo fatto.
"Merda" dissi per poi correre verso il bagno.
La cosa che odiavo di più fare era quella di vomitare. Oltre che a farmi schifo alcune volte mi spaventava.
Insomma, il vomito non lo controlli, e non mi piaceva come cosa.
Andrea mi accarezzava la schiena e mi diceva all'orecchio cose dolci, però non ci feci caso. Ero avvolta tra le convulsioni.
Sembrava essere passata un'eternità, ma quando smisi mi sentii meglio. Come un masso in meno.
Mi sedetti a terra e poggiai la testa sul suo petto.
"Non bere più tequila, odio vederti così"
"Tranquillo, ho imparato la lezione"

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