Capitolo 20. Bodie

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Dopo un venerdì assassino con tre ore di sonno e un sabato anche peggiore, domenica mattina non riesco a reggere il sermone. Sono ancora a letto quando mia madre entra in camera senza bussare, con le tapparelle abbassate e la testa sotto le coperte per metà. Fuori piove, ed è troppo freddo, non voglio uscire.

«Bodie, c'è il sermone oggi!» mi riprende. Evidentemente sta già perdendo la pazienza.

«Non sto bene» rispondo ed esce così sofferente che comincio a chiedermi se sto male sul serio.

«Cosa succede?» chiede e il suo tono si ammorbidisce mentre si siede sul letto accanto a me.

«Non lo so» alzo un po' la testa per guardarla in faccia e a giudicare da come lei guarda me le mie occhiaie non devono essere sparite. Forse ho anche i segni del cuscino. Ho fatto questa recita milioni di volte, ma mai prima del sermone della domenica. Però sono troppo stanco e so che collasserei a metà, magari su una panca o, peggio, all'organo. «Non mi sento bene. Non sto in piedi».

Tira un lungo sospiro. «Non importa. Lo dico al Pastore Graham. Vuoi che ti cucini qualcosa prima di andare?»

«No, tranquilla. Vai» sorrido. «Grazie mamma»

Mi accarezza la testa, poi si china a darmi un bacio sulla fronte. «Ciao tesoro».

La sento andare di sotto e parlare con mio padre. Sono contento di non capire la sua risposta quando gli dice che non sto bene. Dopodiché, li sento solo chiudersi dietro la porta.

Adesso vorrei alzarmi e fare qualcosa di utile, ora che ho guadagnato l'ora che di solito perdo in chiesa, ma ad essere onesto non sono sicuro di aver mentito del tutto a mia mamma. Mi sento appesantito e accaldato, sento di avere i capelli sporchi e unti e il viso come se mi avessero preso a pugni. Decido che rimarrò a letto per altri dieci minuti, dieci minuti che diventano quasi mezz'ora.

Quando mi tiro su dal letto, me ne pento come al solito. Alzo la tapparella e me ne vado in bagno, ma mi sembra di metterci ore a cambiarmi e lavarmi. Dovrei farmi una doccia, ma decido che la farò stasera dopo cena. In fondo, non sto poi così male, forse sono solo stanco e questa cosa che mi preme sul petto è quello che ha detto Ryss l'altra sera. Il cantante l'abbiamo. Tu canterai.

A me piace cantare. Canterei per ore intere, rifarei la cover di tutto l'album Black Parade e poi potrei passare ai Fall Out Boy, agli Iron Maiden e ai Guns N' Roses. Potrei anche cantare Britney Spears, o persino i canti religiosi. Non mi disturba nemmeno l'idea di farlo davanti agli altri; se penso a Gerard Keller, a com'era sicuro ed entusiasta su quel palco, so che potrei stare al suo posto senza problemi. Potrei cantare davanti all'intero Old Rock, anche davanti a tutta la scuola, ma non davanti ai miei genitori. O meglio, posso anche farlo, ma non voglio. I loro occhi mi spaventano, non la delusione se sbaglio ma la felicità quando canto qualcosa di bello, le aspettative che vi nascono dentro quando pensano al mio futuro. Ho sempre così paura di guardare quelle aspettative che ho smesso di cantare del tutto, sia con loro, che in chiesa, che a scuola. Quando la mia famiglia è a casa, evito di farlo anche sotto la doccia.

Credo sia per questo che mi è venuto un attacco di panico quando la Johnson mi ha chiesto di farlo: io non canto più, ho smesso anni fa e non l'ho più fatto. E ho il terrore di incontrare gli occhi di chiunque abbia davanti mentre sto cantando. È difficile da spiegare. Mia madre ha sempre detto che ho una voce angelica, che chiunque la troverà meravigliosa, ed è questo il punto. Io non sono un angelo, non solo meraviglioso, chiunque si accorge che sono un disastro quando mi conosce, ma non quando canto. Non ha senso.

Eppure davanti Ryss ho già cantato due volte e farlo di nuovo non mi spaventa. Solo, non voglio illuderlo di qualcosa che non posso fare, come per esempio cantare in una band. Ma per fortuna non abbiamo né un batterista né un bassista, e se vogliamo fare della musica come quella di Gerard Keller - più o meno - ci serviranno entrambi di sicuro.

All That ShinesWhere stories live. Discover now