Capitolo 8. Bodie

62 11 23
                                    

Questo posto è molto stretto. Questa panca è molto stretta. Questi vestiti sono molto stretti. Per la maggior parte del tempo, questo corpo è troppo stretto. È un po' come in quei film sulle piramidi d'Egitto: cunicoli di pochi centimetri in cui i protagonisti sono costretti a strisciare, le pareti che premono contro le loro schiene e i loro petti, contro le spalle, l'unico modo per non incastrarsi è tenere le braccia protese davanti a sé e usare quelle per strisciare. È un'immagine piuttosto claustrofobica, se ci si pensa bene, ma per me è diventata quasi un'abitudine. Più che altro un modo di vivere, come quando stai male ma stringi i denti. Immagino che ad un certo punto non ce la si faccia più, ma non credo di essere già arrivato a quel punto.

Non sono neanche sicuro che sia una cosa normale, questo continuo reprimere. I miei fratelli non lo fanno, penso. Mia madre, lei di sicuro non lo fa; lei non ha bisogno di reprimere nulla, perché quello che c'è in lei non è nero e agitato e un tormento continuo, ma è come un fiore, una perfetta margherita in un campo di margherite. Il fiore giusto, nel posto giusto. Se noi tutti siamo un campo di margherite, se lei è una margherita, io sono uno di quei fiori stranissimi che crescono in posti molto lontani, che quando appassiscono sembrano un incrocio fra un teschio e un kiwi, oppure un fiore di quelli che la Professoressa Johnson porta a scuola per Halloween, tipo la Tacca Chantrieri, quella pianta orrenda che ricorda un pipistrello. Non lo so, in realtà, cosa sono esattamente, ma di sicuro non una margherita come mia madre e tutti gli altri, anche se forse a vedermi lo sembro.

Poi, uno che fa queste riflessioni sulle margherite, normale normale non è.

È sabato sera. La gente della mia età, nei libri, nei film, nella vita reale, esce, va in discoteca o in giro con gli amici. Io no. Io, chiaramente, sto in chiesa. E non è che vorrei essere in discoteca o a ristorante, è solo che non vorrei essere qui. Mentre me ne sto seduto all'organo, in attesa che il Pastore Graham abbia finito di dare le dritte a tutto il coro, fisso la pagina bianca del mio quaderno e mi chiedo che cosa stesse scrivendo oggi Ryss sul suo.

Io sul mio ci scrivo canzoni. Suona ridicolo, anche perché io ho lo stesso talento per scrivere canzoni che ha un pesce per scalare il Monte Everest, ma confido lo stesso che qualcosa di buono possa uscirne. Di quante false speranze, mi nutro. Ecco, questo sarebbe carino da scrivere in una canzone.

«Bodie, andiamo da capo» mi dice il Pastore Graham.

«Sì, Pastore» rispondo con una discreta stanchezza e sento che gli occhi potrebbero chiudermisi da un momento all'altro. Il Pastore Graham deve accorgersene, perché tira su il pollice e aggiunge:«Coraggio, ultima volta».

Annuisco e ricomincio a suonare l'Hallelujah. Dopo Pray, pray, l'Hallelujah è stata una delle prime canzoni che ho imparato, ormai posso suonarla ad occhi chiusi. Ma non mi conviene chiudere gli occhi, perché potrei addormentarmi. Il coro di margherite sull'altare riprende a cantare, un brusio generale in sottofondo e tre voci soliste che sovrastano gli altri, stonate, disordinate, sovrapposte. Così possono stare tutti tranquilli che non mi addormenterò.

Quando questo strazio finisce, sento quasi l'odore della libertà. Ormai sono le dieci, potrei sempre fare una scappatella fuori più tardi, a prendere un po' d'aria e ad andare a leggere i cartelli sul retro dell'Old Rock, ma non sono sicuro che sia una buona idea, perché oggi è sabato e c'è caso che i miei stiano svegli più a lungo del solito.

Ah, l'Old Rock. L'Old Rock è il locale più bello di tutta la città; non sono mai entrato, ma ho visto le foto della sala principale, enorme, più della San Christopher, del palco, delle luci coloratissime e dei neon appesi. Anche fuori ci sono i neon, che sovrastano l'ampio ingresso con tre porte, una linea luccicante che scrive Old Rock sulla facciata; mentre sul retro, a parte la porta vicino ai camerini e quella da cui buttano fuori gli ubriachi, non c'è nulla. C'è giusto un lampione, che illumina la bacheca a cui vengono appesi i manifesti delle band che suoneranno nelle prossime sere. Sono quasi sempre band locali, ma a volte ci sono anche queste band di posti lontani, tipo Los Angeles, New York, Las Vegas, New Orleans, Seattle, che vengono a suonare qui. E ogni tanto appaiono i nomi di band sconosciute, nuove, composte da ragazzi della mia età o poco più grandi di me, che si affacciano sulla scena per la prima volta. Ho sentito dire che questi devono fare una sorta di audizione per suonare all'Old Rock, ma non so quanto sia vero, perché i gestori del locale in realtà non gestiscono assolutamente nulla; a mantenere quel posto sono i Detonators.

All That ShinesOnde as histórias ganham vida. Descobre agora