Capitolo 10. Ryss

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Quando arriva Bodie, mio padre è già uscito. Non so dove vada, di domenica pomeriggio, ma lui esce senza dire nulla e io non chiedo. So solo che spesso la domenica esce, verso le due, e non torna prima delle dieci di sera. Ogni tanto me lo domando, chissà che fa, ma poi realizzo che non me ne frega assolutamente niente.

Gli apro la porta con i pantaloni che ho addosso. Verso le due e un quarto, e ora sono le tre, mi è venuto un dubbio su quale paio di pantaloni mettere. Non potevo mica aprirgli in pigiama, nemmeno con i pantaloni della tuta. Ho un paio di pantaloni neri, con una riga sul fianco e le borchie in fondo, molto belli. Ma poi ho pensato: sono a casa, perché dovrei mettermi un paio di pantaloni da serata? Non che io faccia molte serate, infatti non li porto mai. Ho anche un paio di jeans, più normali, quelli che uso per andare a scuola, ma sono a lavare. Ho quelli a quadretti, ma mi ci ha già visto dentro diverse volte: e se poi pensasse che non ho altri pantaloni? O che sono sempre sporchi? Stavo provando un altro di quei pantaloni da serata; sono bianchi, con una striscia viola a lato solo su una gamba, svasati in fondo, ma sono troppo lunghi e quando cammino li pesto. Per chi pensavano di farli? Un gigante? Io sono quasi del tutto nella norma, come peso e come altezza - forse leggermente sottopeso, ma non di tanto - , eppure mi sono lunghi. Praticamente, a metà di questo pensiero, Bodie ha suonato il campanello.

«Bei pantaloni» dice, con un sorriso.

Lui è come al solito; jeans chiari, una maglietta nera con una grossa scritta gialla e la solita giacca color ocra un po' grande per lui. Ha i capelli tirati su, ma ora che ci faccio caso sono un po' lunghi, motivo per cui gli ricadono un po' da tutti i lati, e la scritta gialla mi fa quasi scappare da ridere. VERSO LA LUCE DEL SIGNORE, LONTANO DAL PECCATO. Sotto, più in piccolo e in stampatello, c'è un'altra piccola sigla: Chiesa di San Christopher.

Lui segue il mio sguardo e alza le spalle. «Eh, lo so,» allarga le braccia e le fa battere contro i fianchi. «La mia vita è uno sballo»

«Vieni pure» lo faccio entrare e lui si dà un'occhiata intorno, ma anche se la mia casa non è come la sua non vedo nessun segno di giudizio nei suoi occhi. Sembra entusiasta.

Lo guido su per le scale fino in camera mia, i suoi passi fanno scricchiolare il pavimento di legno. Non appena entriamo, lui spalanca gli occhi. Il mio letto è nell'angolo a sinistra della porta, lungo la parete, e subito dopo c'è l'armadio a due ante. Girato l'angolo della parete c'è la finestra e poi la mia libreria; sulla parete di destra invece c'è la scrivania, coperta di libri e quaderni.

La chitarra è al suo posto vicino alla scrivania e sulla sedia ho appoggiato una buona dose di merende, Crackers, barrette di cereali, Nutella e biscotti in scatola.

«Devo mangiare tutta quella roba?» chiede, alzando un sopracciglio e sorridendo«Perché ho portato dell'altro cibo»apre lo zaino e tira fuori una confezione bianca di cioccolatini e un barattolo ancora chiuso di formaggio spalmabile. Mi guarda e alza e abbassa le sopracciglia diverse volte, con uno sguardo che vuole essere allusivo ma è in realtà piuttosto divertente.

Ci mettiamo sul letto e istantaneamente, guardando come si toglie le scarpe prima di sedersi, penso a Steven, che invece si sdraiava senza nemmeno pensare alle scarpe. Questo pensiero mi mette di cattivo umore e il cuore mi batte un po' più forte, infastidito, nervoso.

Ha i calzini gialli, come la scritta sulla maglietta. Quando vede che li guardo, sorride.

«Lo so cosa stai pensando,» mi punta il dito contro. «Smetti di pensarlo».

Mi faccio una mezza risata, ma lui mi preme il dito sulla fronte e continua:«Smetti di pensarlo. La mia vita è entusiasmante, non come credi tu. Insomma, quanta gente conosci che si fa due ore di prove del coro suonando l'organo poi va a casa, litiga con i propri genitori e poi riesce anche ad uscire di casa il giorno dopo?»

All That ShinesWhere stories live. Discover now