Capitolo 40

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You ask me if there'll come a time
When I grow tired of you
Never my love
Never my love
You wonder if this heart of mine
Will lose its desire for you
Never my love
Never my love

Tigris ci invita ad uscire dalla cantina una volta giunta la sera, quando l'orario di chiusura del suo negozio è passato da un pezzo e di gente nelle strade non ce n'è più traccia. Noto che è già buio, quando mi arrischio a scostare appena la tenda della vetrina, e che la via deserta al di fuori del negozio ha assunto un aspetto spettrale. La neve, bianca, ha ricoperto totalmente l'asfalto, a parte qualche impronta qua e là. Come stamattina, ho l'impressione che quella in cui abbiamo trovato rifugio non sia una delle vie più frequentate di Capitol City.
Il piccolo televisore sul bancone è acceso, già sintonizzato sul canale del notiziario che aggiorna, per ventiquattr'ore al giorno tutti i giorni, la capitale sugli avvenimenti più importanti. Gale e Pollux sono in piedi ed osservano le immagini che passano veloci. I loro visi sono accesi di blu grazie al riflesso. Mi avvicino a loro e non ho bisogno di ascoltare la voce della telecronista per comprendere le ultime notizie: i volti di Finnick, di Messalla, di Boggs e degli altri caduti sono più che sufficienti.
- Hanno identificato i loro corpi – mormora Gale. – Sanno che siamo sopravvissuti.
Le mani di Pollux si muovono in fretta, indicando prima lo schermo, poi noi stessi, e poi la strada. Aggiunge qualche altro segno, ed anche se non sono in grado di capire la lingua dei senza voce so cos'è che vuole dirci. È chiaro a tutti, ormai: siamo molto più che dei semplici ricercati. Siamo diventati le più grandi minacce per la nazione intera.
- Non saremo più in grado di passare inosservati – constato.
E più tempo rimango davanti al televisore, più ne divento consapevole, e le poche, deboli certezze che ancora reggevano dentro di me, crollano frusciando come un castello di carte. Se c'è una cosa che l'intera giornata di ieri e la notte appena trascorsa mi hanno insegnato, è che noi non saremmo mai stati in grado di passare inosservati. La Squadra di Stelle partiva già svantaggiata per avere all'interno dei suoi membri tre giovani vincitori degli Hunger Games, vincitori che per forza di cose erano già di loro fin troppo riconoscibili. Ad essi, vanno aggiunte le centinaia di telecamere di sorveglianza che registrano ogni secondo di ciò che accade in strada. È così che ci hanno trovato e sarà così che ci troveranno ancora se non stiamo attenti. Siamo stati fortunati se, per giungere fino al negozio di Tigris, non siamo stati segnalati o seguiti da chicchessia. Uscire allo scoperto adesso, quando tutti sono sull'attenti ed in attesa di scoprirci, non è la migliore delle mosse.
- Dobbiamo escogitare un piano.
- L'unica cosa che dovete fare, ora, è mangiare – annuncia la voce carezzevole di Tigris alle nostre spalle. – Vi ho preparato qualcosa in cucina.
Il cibo che ci offre Tigris non è molto: giusto un po' di pane ed un pezzo di formaggio, ma davanti alla gentilezza di questa donna gatto rifiutare il suo cibo è l'ultima cosa che potremmo fare. Ci sta aiutando nascondendoci nella cantina del suo negozio, sta correndo un rischio incredibile per salvarci la vita, così mangiucchiamo senza parlare molto. Abbiamo tutti la mente piena di dubbi, di domande e, almeno la mia, infinite ipotesi su come poter procedere nei prossimi giorni.
Quando scendiamo di nuovo nella cantina umida, la prima cosa che faccio è indossare una pelliccia per scacciare il senso di freddo improvviso: anche dentro il negozio di Tigris fa freddo, ma non così tanto. Infagottata come un orso, tiro fuori la cartina dal mio zaino e chiedo a Cressida di indicarmi lì sopra il punto in cui ci troviamo.
- Siamo qui – dice, puntando l'indice sulla carta. – E qui – sposta di poco il suo dito per posarlo in un altro punto – si trova la villa di Snow.
- Aspetta, dove?
Mi indica di nuovo la nostra posizione e, usando come matita la punta di una freccia, traccio la distanza che ci separa da Snow. Tre chilometri, approssimativamente, se ciò che ha detto prima Cressida è giusto. E quando mi alzo per osservare in un'immagine d'insieme la cartina, e la distanza che ci separa, noto che l'abitazione del presidente è posizionata proprio al centro. Al centro della cartina, al centro della città. Francamente, non mi stupisco. Avrei dovuto intuirlo anche senza guardare la cartina.
- È vero ciò che hai detto alla Jackson, Peeta? – gli chiedo voltandomi nella sua direzione. È dietro di me, ma si avvicina ancora di più quando sente che lo chiamo. – Sei stato all'interno della villa di Snow?
- Ci sei stata anche tu, Katniss. Non ero mica da solo durante il Tour della Vittoria – constata lui.
Scuoto la testa, ricordando improvvisamente il luogo in cui si è tenuta la festa organizzata dal presidente per onorare la fine del nostro Tour. Che sciocca. Ovvio che ci sono stata anche io.
- Ma non abbiamo visto granché durante la festa. Solo la biblioteca, il parco e-
- E la sala dei ricevimenti – continua Peeta.
- Giusto. E quando sei stato catturato dopo la seconda arena... cosa hai visto?
- Niente. Non mi hanno mai portato da Snow, né tantomeno nei suoi appartamenti privati.
- Ma allora perché...
Cressida mi interrompe. – Ha mentito. Come ho fatto anche io, Katniss. Per cercare di convincere la Jackson che la tua missione fosse vera.
Questo non ci è di nessun aiuto. – Quindi tutto ciò che conosciamo della villa presidenziale... è ciò che abbiamo visto l'anno scorso?
- Credo di sì.
Peeta si offre di tracciare una sorta di bozza dell'edificio, riportando le stanze che conosciamo ed il modo in cui ci siamo arrivati. Il tutto, purtroppo, si limita al pianterreno: l'entrata, l'ampia entrata in cui si snodano almeno cinque corridoi e che, a parte quello che ci ha condotti fino alla sala riservata ai ricevimenti, non sappiamo dove portano. La sala ricevimenti ha, tutt'intorno, alcune porte nascoste che conducono in altrettante stanze, e noi abbiamo visto solo la biblioteca, dato che Effie ci teneva moltissimo a mostrarci le migliaia di volumi con cui era stata riempita. E accanto alla biblioteca due enormi bagni.
Ecco tutto ciò che sappiamo del luogo in cui vogliamo provare ad intrufolarci.
- Non è molto – osserva Gale.
- Ma non è nemmeno poco – lo rimbrotta Cressida.
Molto, poco: vorrei che tra queste due parole ci fosse una via di mezzo, un qualcosa che possa esserci di aiuto, ma purtroppo non esiste. Dobbiamo accontentarci delle poche nozioni che abbiamo. Abbandono la punta della freccia sulla cartina e decido che per stasera può bastare. Forse domani, a mente riposata, riusciremo a cavare fuori un ragno dal buco.
Lasciamo la luce accesa, l'unica lampadina dalla luce gialla che pende dal soffitto, e torniamo a sdraiarci sui nostri giacigli improvvisati. Non mi tolgo di dosso la pelliccia bianca e ne aggiungo un'altra a mo' di coperta, dato che il freddo non sembra volermi abbandonare. Porto le gambe contro il petto, rannicchiandomi come ho fatto così tante volte nel corso della mia vita, quando avevo freddo, ma anche quando avevo paura, quando sentivo qualcosa che minacciava me stessa e gli altri. Sento il rubinetto che torna a sputacchiare ed immagino che qualcuno stia facendo scorta d'acqua prima di mettersi a dormire.
Quel qualcuno, scopro, è Peeta. Posa la sua borraccia accanto al suo zaino e si sdraia dopo aver sistemato la pelliccia che ha usato come materasso anche oggi. Si gira verso di me. – Senti tanto freddo? – mi chiede.
- Va meglio, adesso – mormoro.
Lui annuisce, mettendo il braccio sinistro dietro la testa come cuscino; l'altro è fermo sulla pancia. Osserva la lampadina sul soffitto mentre io osservo lui, osservo i suoi occhi fissi sulla luce gialla. Sono sicura che avverte il mio sguardo fisso, ma non credo che gli dia fastidio, e non dice nulla a riguardo. Peeta non dice mai nulla riguardo a queste cose. Fa sempre finta di niente al contrario di ciò che faccio io, che quando mi accorgo di qualcosa che non va come dico lo faccio notare con le mie occhiate truci.
Siamo così diversi, ed il pensiero torna inevitabilmente alla sorta di discussione che abbiamo avuto oggi, stamattina. Nonostante il nostro essere così diversi, nonostante lui desideri altri figli mentre io non ne voglio più, non ha nessuna intenzione di lasciarmi: resterà insieme a me anche se questa sua decisione potrebbe renderlo l'uomo più infelice del pianeta. Non mi capacito di essere proprio io la fonte della sua infelicità, la fonte dei suoi patimenti.
Potresti vivere cento vite e ancora non lo meriteresti, lo sai?
E mai le parole di Haymitch mi sono sembrate più vere di così. So di non meritarlo, so che potrebbero esserci altre persone, altre ragazze migliori di me al di fuori di questa cantina che potrebbero renderlo altrettanto felice. Molto più felice...
Ma lui ti ama. Ti ama, e vuole te. Le altre ragazze non gli interessano.
Scivolo lentamente verso il suo corpo e poso la testa nell'incavo della sua spalla. Poso delicatamente le labbra sul suo collo, lo sfioro nel più innocente dei baci; non c'è malizia nel mio gesto, non voglio provocarlo o altro. Il mio è più un gesto di conforto: per me, per la mia coscienza, per il mio cuore che vuole troppe cose tutte insieme. Il mio cuore vorrebbe lasciarlo andare, ma allo stesso tempo sa che non ci riuscirebbe. E non è solo il mio cuore che non ne sarebbe in grado, ma tutto il mio essere: così come ho capito di amarlo, capisco che senza di lui non riuscirei ad andare avanti. Peeta è necessario alla mia sopravvivenza, e ne ho già avuto la prova quando è stato fatto prigioniero qui a Capitol City. Non potrei passarci di nuovo... ne morirei.
Peeta mi abbraccia, circonda le mie spalle e mi trascina quasi sopra di sé. Mi abbandono contro di lui, inspiro l'odore della sua pelle e chiudo gli occhi. Cerco di abbandonarmi al sonno.
E quasi non mi rendo conto di non sentire più freddo.

Nel silenzio della notte (In The Still Of The Night)Where stories live. Discover now