Capitolo 25

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Ho gli occhi aperti e la mente annebbiata. Mi sono svegliata con la mente annebbiata. È una sensazione spiacevole, la mente annebbiata. Non mi permette di ragionare e di pensare come vorrei.
Sono in questo stato confusionale da ieri sera, almeno: dal momento in cui ho aperto gli occhi sulla terribile realtà che mi ritrovo a vivere. Nel posto in cui mi trovo devono esserci dei medici, perché mia madre ne ha dovuto chiamare uno quando ho cominciato ad urlare e ad agitarmi, in preda al dolore. Non era il dolore fisico a tormentarmi, ma quello che sentivo dentro al cuore. Era un tipo di dolore che avevo provato solo una volta prima d'ora, ovvero cinque anni fa, alla morte di mio padre. Ero ancora piccola, e quel dolore mi colpì con un'intensità tale da mandarmi in confusione. Le settimane e i mesi successivi non furono per niente facili, tra la malattia della mamma e la mancanza di cibo che rischiava di farci raggiungere il papà nell'oltretomba, ma ne siamo uscite fuori. Con difficoltà, ma ne siamo uscite fuori.
Questo dolore sembra addirittura più forte, è lancinante. Non mi fa respirare, non mi fa sperare di uscirne fuori. Mi fa solo desiderare di farla finita. Perché io sono inutile, adesso, e capace soltanto di far del male a chi amo. Scopro di aver amato questa piccola bambina così tanto da desiderare di poterla raggiungere nella morte il prima possibile. Magari, questo dolore mi sarà utile allo scopo.
Prim non è riuscita a tranquillizzarmi, a fare in modo che non mi facessi del male a causa degli aghi e dei fili che ho su tutto il corpo. È stato allora che la mamma è corsa a cercare aiuto. L'aiuto che, loro due da sole, non erano in grado di fornirmi. Pochi minuti, e sono sprofondata nella nebbia.
La nebbia è orribile.
Continuano ad iniettarmi questo farmaco annebbiante da ieri sera, credo che sia una sorta di tranquillante. Rallenta i miei movimenti, ma tanto sono stesa su un letto e non devo andare da nessun'altra parte. Non so neanche dov'è che potrei andare, dal momento che nessuno mi ha ancora svelato il luogo in cui mi hanno portata. Posso dormire e svegliarmi liberamente, almeno questo me lo consentono. Non provano a farmi mangiare, per quello ci pensano i vari tubicini che ho collegati tutt'intorno a me. Mi iniettano questa roba per mantenermi in vita e per non farmi agitare, quando tutto ciò che voglio è morire. Soltanto morire.
Raggiungerla.
Una squadra di medici viene a fare un controllo, anche loro vestiti di grigio, ma è come se non li vedessi. Non presto attenzione a ciò che fanno, a ciò che leggono sui monitor. Mi isolo. Mia madre e Prim non sono con me quando arrivano: sono andate via stamattina presto. Torneranno più tardi, hanno detto, e hanno aggiunto che mi lasciavano in buone mani.
Lascio fare alle "buone mani" il loro lavoro su di me, e poi sono di nuovo sola in questo posto tutto grigio. Ho quasi paura che la mia vista si sia danneggiata, perché non può esistere un luogo così totalmente grigio. La mia pelle però è rosa, e i tagli che la solcano sono di un rosso vivo. I lividi, invece, sono un po' blu e un po' verdi. No, la mia vista è a posto.
Persa in questa nebbia, resto distesa su di un fianco e mi limito a respirare e a battere lentamente le palpebre. Vorrei tornare a dormire, ma la mia mente è così tanto obnubilata da impedirmi persino di tornare a farlo. Ogni tanto sento un "bip", ma non so da dove provenga. Non sono i miei macchinari che fanno "bip". Qui dev'esserci qualcun altro, a letti e letti di distanza. Qualcuno che conosco? Peeta, forse?
Uno di questi "qualcuno" raggiunge il mio letto lentamente, e prende posto sulla sedia che la mamma ha lasciato libera, credo, ore fa. Sembra un'altra di quelle apparizioni che avvengono dal nulla: non ho sentito porte aprirsi, i suoi passi che si avvicinavano... ma lui, in fondo, ha il passo felpato come il mio. Ha imparato a muoversi come un fantasma nella foresta, per evitare di far scappare le sue prede. Sa come fare per arrivare senza che nessuno se ne possa accorgere.
Gale.
Anche lui ha addosso una tuta grigia, in tinta con i suoi occhi. Tutto questo posto è in tinta con i nostri occhi grigi, gli occhi del Giacimento. Occhi che i nostri padri hanno trasmesso a noi figli.
Di che colore erano gli occhi di lei? Grigi o azzurri?
- Ciao, Catnip – sussurra Gale.
La sua faccia è un miscuglio di tagli e lividi. È la faccia di chi ha avuto uno scontro con qualcuno. Perché si è ridotto in questo stato?
- Che ci fai qui? – sono le prime parole che pronuncio da ieri sera, e sono tutte per lui. Lui, il mio migliore amico.
- Sono venuto a trovarti – risponde. Tocca una mia mano e, quando vede che non lo respingo, la stringe.
- Dove siamo?
- Nel Distretto 13.
Lo guardo, confusa. Grazie alla sua risposta, il mio cervello diventa ancora più annebbiato. Forse ho capito male proprio perché ho la mente annebbiata dai farmaci. Gale si sta sbagliando: non esiste il Distretto 13. Non esiste più da settantacinque anni, dalla fine della guerra e dei Giorni Bui. È a causa della sua distruzione e della ribellione dei distretti se gli Hunger Games sono stati istituiti.
Stringo gli occhi più volte, prima di rispondergli. - Non è possibile.
- È così, Katniss. È una lunga storia, ma te lo spiegheranno con calma...
Ne ho abbastanza delle lunghe storie. Le lunghe storie, ho scoperto, non portano mai a niente di buono.
- Perché non siamo al 12? – chiedo.
Gale esita; deglutisce, scosta gli occhi dal mio viso, colpisce ripetutamente, ma piano, la mia mano con la sua.
- Gale? – lo chiamo, e per un attimo lo strato di nebbia sparisce, consentendomi di concentrarmi interamente su di lui. – Che è successo? – chiedo, spaventata. Deve essere accaduto per forza qualcosa, altrimenti non impiegherebbe tutto questo tempo per rispondermi. Deve essere accaduto qualcosa perché, altrimenti, come si potrebbe spiegare la nostra presenza al 13?
La sua voce è piatta e priva di qualsiasi inflessione quando mi dice: - Katniss, il Distretto 12 non esiste più.
Devo analizzare ogni singola parola, ogni singola lettera, per capire cosa mi sta dicendo, e cerco di dare un altro tipo di significato alla sua frase quando il primo che la mia mente riesce a registrare non mi piace. Non possono davvero averlo fatto.
- No, Gale...
- Quando hai lanciato quella freccia hanno interrotto tutte le trasmissioni – comincia a spiegarmi, tenendo sempre la mia mano. Questo contatto mi tiene legata alla realtà, mi dice che non è un sogno o un viaggio fatto sotto farmaci. – I Pacificatori hanno dato l'ordine a tutta la popolazione di tornare nelle proprie case, anche chi era nelle miniere per il turno di notte. E per l'ora successiva non si è più sentito volare una mosca.
Pendo dalle sue labbra.
- Poi abbiamo sentito arrivare i furgoni. Quando sono uscito ho visto che però andavano via, non erano arrivati per restare. E con loro sono andati via anche i Pacificatori: tutti quanti. Non ne è rimasto neanche uno in tutto il distretto...
Gale ha capito che stava per succedere qualcosa. Un ordine doveva essere stato emesso da qualche parte, forse da Capitol City stessa, e riguardava il nostro distretto. È corso nella notte, avvertendo più persone che poteva, ordinando di fuggire e di lanciare il messaggio tramite il passaparola. Tutti dovevano sapere che non era più sicuro restare all'interno delle proprie abitazioni. E neanche al di fuori. L'intero Distretto 12 non era più un luogo sicuro dove poter restare.
- Sono andato ad avvertire la tua famiglia e poi le ho portate alla recinzione, vicino al Prato. Lì si era riunita già molta gente e insieme l'abbiamo buttata giù per poter fuggire nei boschi, ma intanto altre persone si stavano unendo al nostro gruppo. Ne arrivava in continuazione, anche se non sapeva il perché della fuga improvvisa.
A questo punto Gale si ferma, indeciso se continuare o fermarsi. Sono io a spronarlo.
- Cos'è successo?
Non mi guarda.
- Eravamo già nascosti dagli alberi quando li abbiamo sentiti arrivare, sopra di noi.
Gli hovercraft.
- Ci hanno superato e sono andati dritti al distretto. Hanno iniziato a sganciare bombe incendiarie e... e abbiamo visto bruciare le nostre case. Abbiamo visto bruciare tutto il Distretto 12.
Ho un ricordo del giorno in cui, sul finire dell'inverno, appiccarono il fuoco al Forno, la sede del mercato nero del 12. Ricordo le volute di fumo che si levavano dal baraccone, e le persone che dovevano essere fuggite da esso in preda al panico. Immagino la stessa cosa, ma moltiplicata all'inverosimile. Immagino che sia ciò che ha visto Gale, e che hanno visto anche mia madre e mia sorella.
- Siamo rimasti a vedere il fuoco che distruggeva tutto quanto, e il fumo che copriva il cielo. Non si vedeva più niente, neanche una nuvola, o la luna.
Al mattino non vi era più nulla da bombardare, e gli hovercraft se ne andarono. Gale guidò il gruppo di superstiti verso il lago e lì restarono, cacciando e cercando di sopravvivere nei boschi, fino a che non arrivarono i soccorsi del 13, che li portarono in salvo al loro Distretto. Più o meno, arrivarono lo stesso giorno in cui arrivai io.
- Perché lo hanno fatto? – mormoro. – Per colpa mia?
- No, Catnip, no. Non è stata colpa tua – dice Gale, raccogliendo col pollice una delle mie lacrime. – Katniss, mi... mi dispiace tanto per-
Scuoto la testa e chiudo gli occhi nel tentativo di farlo tacere. Non voglio, non voglio che il discorso verta su di lei. Non voglio essere costretta a rivivere di nuovo tutto quanto. Provo, con voce rotta, a riportare il discorso dove Gale lo ha interrotto poco fa. - Si sono salvati tutti quanti?
Scuote la testa. – Poco più di ottocento persone.
Ottocento persone sulle quasi diecimila che popolavano il distretto. Perché ho dovuto chiederglielo?
- E la famiglia di Peeta?
Di nuovo: perché ho dovuto chiederglielo? Gale non mi risponderà stavolta. È evidente dall'espressione del suo viso che non ho davvero bisogno di una risposta per sapere cosa è accaduto alla famiglia di Peeta.
Sono morti nelle esplosioni. Sono morti insieme ad altre novemila persone.
Peeta non ha avuto più un buon rapporto con la sua famiglia da quella orribile mattina, quando andammo insieme dai suoi genitori per parlargli della mia gravidanza. Non ha mai, mai digerito i commenti che uscirono dalla bocca di sua madre, e le orrende parole con cui definì l'arrivo di nostra figlia. Un problema: era solamente un problema, per lei, che si sarebbe risolto entro l'estate.
E ha avuto ragione.
Si è risolto.
Ma nonostante l'amarezza e l'astio che si è andato a creare all'interno della loro situazione familiare, non è facile venire a sapere della scomparsa di entrambi i suoi genitori e dei suoi fratelli maggiori. Peeta lo sa già? Quando gliel'hanno comunicato? Perché non ero con lui quando gliel'hanno detto?
- Peeta lo sa? – chiedo ancora a Gale.
- Non gliel'hanno ancora detto – dice, sbrigativo.
- Ma sta bene?
Annuisce. – Non si trova in questo settore dell'ospedale, ma sta bene. Lo stanno tenendo sotto osservazione per via della sua gamba, sai...
Gale evita totalmente i miei occhi.

Nel silenzio della notte (In The Still Of The Night)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora