Capitolo 30

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- Perché non fanno nulla per salvarlo? – chiedo per l'ennesima volta ad Haymitch. – Perché lo lasciano lì a soffrire? Lo stanno facendo morire!
- Perché per loro è poco più di un doppiogiochista, e loro non li salvano, i doppiogiochisti – Haymitch è arrabbiato quanto me, o forse anche di più. – Cosa credi, che non ci abbia già provato a convincerli? Non vogliono nemmeno prendere in considerazione l'idea.
- Finché è stato utile ai loro scopi però lo hanno tenuto in considerazione, eh? – me ne esco. – Finché cercavano di ammazzarci all'interno dell'arena, andava tutto bene! E andava bene anche a te, visto che eri in combutta con loro!
- Frena la lingua, ragazzina...
- Perché? Ha ragione lei – dice Gale.
- Lo so che ha ragione, lo so benissimo! – urla, frustrato. – So che è anche per colpa mia se il ragazzo si ritrova in quell'inferno di posto, e rimpiangerò per tutto il resto della mia vita di non averlo salvato in tempo.
- Non per tutta la vita – dico, risoluta, avvicinandomi a lui. – Se Peeta muore prima che facciate davvero qualcosa per salvarlo, ci penserò io stessa ad ucciderti.
- Katniss... - mi ammonisce Gale.
- No, ragazzo, lasciala parlare. Mi sta bene – Haymitch ricambia il mio sguardo. – Ma non riuscirai a farlo, se ci arrivo prima io al suicidio.
- Non provarci, Haymitch. Me lo devi. Hai infranto un patto, ricordatelo – Peeta vive, io muoio. – E adesso devi correre ai ripari.

Ma nessuno è ancora corso ai ripari.
Il diverbio tra me ed Haymitch è vecchio di giorni, ormai, e da allora non è ancora accaduto nulla. Non ci sono stati altri Pass-Pro in onda per tutta Panem e non ci sono state altre comparsate di Peeta in diretta televisiva. Non so se sta bene, se è peggiorato. Non so se è ancora vivo. Ma immagino che me lo avrebbero fatto sapere, se fosse morto. Il presidente Snow non mi lascerebbe mai con questo dubbio, nell'eventualità.
In questi giorni di stasi non faccio niente, assolutamente niente. Sul mio programma non ci sono accenni alle riprese o quant'altro, quindi mi viene naturale abbandonare i miei doveri e tornare a rintanarmi nei miei soliti nascondigli per evitare gente. Evito Haymitch, evito Plutarch e la sua assistente, evito Effie. Evito persino Cressida, che trovo simpatica e che non ha mai fatto nulla di male nei miei confronti. So che sta realizzando alcuni interventi video insieme a Finnick, una sorta di ricordo per tutti i vincitori che sono caduti durante l'Edizione della Memoria e durante i primi giorni della rivolta, quando il presidente Snow espresse l'ordine di ucciderli tutti quanti. Ci sono pochi superstiti: i quattro che si trovano al 13, i quattro che si trovano a Capitol City... e, forse, nessun altro. Per Finnick deve essere difficile raccontare ciò che ricorda degli altri vincitori perché li ha conosciuti quasi tutti. Anche per Haymitch deve essere difficile, ma lui non vuole prendere parte a nessuna registrazione. E non mi importa molto di Haymitch, ora come ora. Potrebbe anche tornare ad ubriacarsi, per quel che mi riguarda.
In questi giorni evito anche Gale. Non voglio vedere nessuno, e se non fosse per l'alloggio che condivido con la mia famiglia, non vorrei vedere neanche loro. Gli unici momenti in cui incontro gente sono quelli destinati ai pasti, e capita solo perché non posso restare a digiuno per sempre; dopo aver mangiato in fretta e furia la mia razione di cibo, scappo di nuovo via.
Dopo il lieve miglioramento, sono di nuovo ricaduta nel mio oblio fatto di solitudine autoinflitta. E mi sta bene. La sopporto più che volentieri, la solitudine. Non posso ferire nessuno se sono da sola.
La solitudine però termina quando, una mattina, incontro Boggs in un corridoio. E lui mi rincorre e mi ferma prima che possa andare a rifugiarmi da qualche parte.
- Sei desiderata, soldato Everdeen – dice, stringendo la presa sul mio avambraccio.
Cerco di divincolarmi, ma smetto praticamente subito. Prima o poi doveva accadere.
Boggs mi accompagna fino alla mia destinazione e non molla un istante la presa su di me. È come se mi tenesse al guinzaglio, come se fossi un cane sfuggente e male addomesticato e lui fosse il mio padrone con la pazienza di un santo. Non mi porta al Comando, però, ma al Rinnovamento. Il quartier generale di Cressida.
- Perché sono qui? – chiedo bruscamente.
- Hai del lavoro da fare – si limita a dire. Apre la porta e mi fa segno di entrare.
Cressida ha bisogno di me e di Gale, oggi, per tornare al Distretto 12 e realizzare delle riprese. Vuole che il pubblico ci veda sui luoghi in cui siamo cresciuti e che abbiamo perso quella fatidica notte, durante i bombardamenti. Ovviamente, ci chiede se ce la sentiamo di tornare a casa.
- Va bene – dico, senza attendere la risposta del mio amico.
Qualsiasi cosa mi va bene, a patto che non sia restare qui senza poter fare nulla di concreto, col pensiero fisso su Peeta torturato. O morto.
Dopo il breve volo in hovercraft siamo di nuovo sulla piazza, davanti al Palazzo di Giustizia distrutto. Non è cambiato molto da quando sono stata qui, poco più di dieci giorni fa. Come potrebbe cambiare qualcosa, dopotutto? L'unica cosa diversa è che non sono da sola, a guardare lo scempio in cui è stato ridotto il mio vecchio distretto. Ci sono Cressida e la sua troupe, e Gale naturalmente. Nessuna scorta, solo noi. Io e Gale abbiamo le nostre armi, ma non dovrebbero servirci. Sono solo per scena.
A nessuno verrebbe in mente di attaccarci qui. A chi verrebbe in mente di attaccare un distretto completamente raso al suolo e privo di vita?
Dovrei essere ormai abituata all'orrore che mi circonda. Ci ho trascorso un pomeriggio intero, dopotutto, ma allo stesso tempo è come se lo vedessi per la prima volta. È come se fossi caduta dalle nuvole, è come se la devastazione fosse accaduta soltanto pochi giorni fa. Per Gale deve essere lo stesso: lo vedo nel modo in cui si guarda intorno, nel modo in cui cerca di distinguere le strane forme che ci circondano. Lui ha visto le bombe cadere e le fiamme, ma lo ha visto dai boschi, lo ha visto da lontano. Non ha mai visto davvero ciò che accadeva qui.
Cressida ci riprende mentre percorriamo la strada per il Giacimento. Ho paura di tornarci, perché so cosa ci aspetta una volta lì. Dentro di me, temo e spero allo stesso tempo di non essere costretta di nuovo a vedere i cani selvatici che si nutrono di ciò che rimane della popolazione del 12. Ma non ci sono cani selvatici, stavolta. I morti sì, però. Quelli non se ne possono andare. Gale mi aiuta ad attraversare la valle della morte perché io tengo gli occhi chiusi, incapace di sopportare oltre quella vista.
Facciamo visita alle nostre vecchie case. Cressida ci chiede di dire qualcosa mentre veniamo ripresi in mezzo a ciò che resta dei nostri oggetti personali. Della mia vecchia casa, quella in cui vivevo prima di trasferirmi al Villaggio dei Vincitori, è rimasto solo il caminetto, quasi intatto. La maggior parte delle nostre cose sono salve perché non si trovavano qui, al momento dei bombardamenti. Non dico nulla, mi limito a guardare il cielo attraverso l'enorme buco che si trova al posto del tetto. Gale fa lo stesso quando visita quella che è stata casa sua fino ad un mese e mezzo fa. Non riusciamo a dire nulla, perché tutto questo non ha bisogno di parole. Il silenzio è più che sufficiente.
Cressida passa allo step successivo e, dopo esserci allontanati dal Giacimento, chiede a Gale di ripercorrere quella lunga notte: una sorta di viale dei ricordi. Lo seguiamo mentre racconta ciò che ha fatto, come è riuscito a far fuggire ottocento persone attraverso la recinzione abbattuta fino ai boschi. Percorriamo lo stesso tragitto di quella notte, tra la calura e la vegetazione, fino al lago, dove i superstiti hanno trovato un rifugio temporaneo ed il modo di sopravvivere fino all'arrivo dei soccorsi, che li ha condotti poi al Distretto 13.
A questo punto ci fermiamo, decidiamo di concederci un po' di riposo dopo la camminata che ci ha condotti al lago e ci dedichiamo al pranzo a sacco che ci siamo portati dietro. All'ombra degli alberi, tra la quiete che circonda il lago, consumiamo il nostro pasto.
Ho sempre provato conforto nel tornare qui, ricordando i giorni spensierati che vi ho trascorso insieme a mio padre. Mi ci ha sempre portato, da quel che posso ricordare. Quando avevo cinque anni mi insegnò a nuotare, ed una volta che avevo imparato divenne veramente difficile convincermi ad uscire fuori dall'acqua per tornare a casa. Me lo diceva sempre, il mio papà, che ero nata nel posto sbagliato. E l'ho pensato anche io, nell'arena dell'Edizione della Memoria, quando sono riuscita a trovare conforto solo all'interno del mare della cornucopia.
Non sono tornata qui molte volte subito dopo la morte di papà; cominciai a tornarci regolarmente solo dopo aver preso a frequentare i boschi giornalmente, per via della caccia. E ci portai anche Gale, quando diventammo amici. L'anno scorso, questo posto è stato testimone silenzioso del nostro bacio. Il bacio rivelatore, come l'ho definito nella mia testa. Perché è stato grazie a quel bacio che capii che non avrei mai, mai potuto ricambiare i suoi sentimenti come avrebbe voluto che facessi. Perché un ragazzo gentile, dai capelli dorati e con gli occhi azzurri come il cielo, era arrivato prima di lui.
Ci ho portato anche Peeta, un paio di volte, sul finire dell'estate. L'ho praticamente costretto a buttarsi in acqua per insegnargli i rudimenti del nuoto e lui mi ha accontentata, divertito. E appena è stato in grado di starmi dietro dentro l'acqua ha cominciato ad affogarmi. Sono stati i giorni più belli, quelli. Senza problemi, senza paure, senza avere la sensazione di star facendo qualcosa di sbagliato, o di proibito... senza sapere che il destino ci stava per riservare una brutta sorpresa.
Se penso che è stato grazie a me che ha imparato a nuotare, e che saper nuotare gli ha in qualche modo consentito di raggiungermi nell'ultima arena... sarebbe potuta andare molto peggio di così.
Perché non c'è mai limite al peggio.
Pollux, l'operatore di camera senza voce, ad un certo punto mi indica un uccellino nero che si è posato su una pietra poco distante da noi. Ho un brivido, ripensando alle ghiandaie chiacchierone che avevano assalito me e Finnick nell'arena, ma poi vedo le macchie bianche sotto le sue ali e capisco che non si tratta di quella specie in particolare. È la sua progenie.
- È una ghiandaia imitatrice – dico, sorridendo. È il mio alter ego, ma in carne ed ossa. E piume.
Mostro a Pollux il modo in cui le imitatrici riproducono i suoni che ascoltano, trasformandole in melodie affascinanti: fischio, variando di poco il motivetto di tanto in tanto, e loro lo rifanno quasi istantaneamente. Anche Pollux si unisce al mio gioco, fischiettando. In breve, non è più solo la nostra piccola ghiandaia a seguire le nostre note, ma anche le altre che ci stanno intorno, nascoste nel fogliame degli alberi, o che si librano nell'aria.
- E chi le azzitta più – se ne esce Gale ad un certo punto.
Pollux sorride, divertito. Mima una serie di indicazioni per me: più che indicazioni, una richiesta.
Mi chiede di cantare.
Cantare. Di nuovo. Avevo giurato a me stessa che non avrei cantato mai, mai più. Ma ho infranto la promessa la sera prima di entrare nell'arena. Ci sono così tante canzoni che conosco tra cui scegliere... e la scelta, alla fine, ricade su un motivetto semplice, che si ripete per quattro volte con poche ed infinitesimali varianti, che sentii anni fa dalla bocca di mio padre. È una canzone proibita, al Distretto 12, una canzone che nessuno vuol sentire per il macabro e cupo significato che si trascina dietro. È una canzone vecchia di anni, di decenni, forse. Non so chi l'abbia scritta, e per quale motivo l'abbia fatto. Ma ormai non esiste più, il Distretto 12, e nessuno verrà a lamentarsi se la canto di nuovo. Nessun vecchio abitante del 12, a parte Gale che è qui insieme a me, ascolterà più questa canzone.

Nel silenzio della notte (In The Still Of The Night)Where stories live. Discover now