Capitolo 26

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Dio ma quanto è ingiusto il mondo
Zero a noi e tanto a loro
Se la nostra razza è immonda
Di che razza è il loro cuore?
Sono nati nei merletti
Per far l'amore e la guerra
Ma anche a noi stracci della terra
La vita piacerebbe bella...

- Dio ma quanto è ingiusto il mondo, Notre-Dame de Paris

Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Sono sopravvissuta agli Hunger Games. Ho perso la mia bambina per colpa degli Hunger Games. Peeta è prigioniero di Capitol City. Potrebbe essere morto anche lui...
Ogni mattina, da quando ho lasciato l'ospedale, mi sveglio ripetendo questo mantra nella testa. Fa parte del mio processo di recupero: ordini inderogabili del dottor Eliot, un luminare che dovrebbe aiutarmi ad affrontare la confusione in cui è immersa la mia mente. Il mantra cambia a seconda delle giornate e dello stato in cui mi ritrovo, ma nella maggior parte delle volte percorro sempre gli stessi step.
Non posso in alcun modo evitare le sedute di terapia col dottor Eliot. Per un'ora al giorno, tre giorni alla settimana, mi siedo di fronte a quest'uomo dall'aria bonaria e rassicurante con cui dovrei parlare, a cui dovrei confidare ed affidare il mio dolore. La terapia funziona così, ma dopo il suo saluto iniziale il resto dell'ora è costellato dai nostri silenzi. Non parlo mai, non dico mai nulla. Ripetere il mantra non è un problema, se questo viene fatto senza pronunciarlo ad alta voce. Ovviamente non otterrò nessun miglioramento se non parlo, se non mi apro. La terapia potrebbe durare all'infinito, se non cerco di spronare me stessa a reagire in qualche modo. Ma reagire non è ciò che voglio.
E finché non reagirò, la piastrina di metallo con incise le parole "Mentalmente confusa" non abbandonerà mai il mio polso sinistro.
Mentalmente confusa. Ecco cosa sono diventata. Ecco a cosa mi ha portato l'Edizione della Memoria.
Essere mentalmente confusa non ha però impedito a quelli del Distretto 13 di darmi degli incarichi, come a chiunque altro in questo strano posto di colore grigio. Nel 13, le ragazze ed i ragazzi che hanno compiuto quindici anni possono acquisire tranquillamente i gradi di base per entrare nell'esercito; di conseguenza, io che ne ho diciassette ed ho anche alle spalle due partecipazioni agli Hunger Games, sono un soldato. Anche Gale lo è. C'era forse da dubitarne?
Ma le più alte autorità del 13 non vogliono avermi solo come un soldato. Me lo aveva già detto, Plutarch, che per loro sono una risorsa ancora più importante. Per loro sono il simbolo della rivoluzione che ha preso il via la notte in cui ho fatto esplodere l'arena.
Loro vogliono farmi diventare la Ghiandaia Imitatrice. Quella che è sopravvissuta nonostante i piani di Capitol City.
Sono la ragazza che ha sfidato Capitol City, a detta loro. Sono la ragazza che ha sfidato il sistema.
Ma il sistema si è già vendicato di me. Mi ha portato via tutto ciò che amo. Mi ha portato via la mia casa, mi ha portato via Peeta... il sistema ha ucciso la mia bambina.
Ed io non ho nessuna intenzione di realizzare i sogni dei Ribelli.
Per questo evito gli avvisi delle riunioni, per questo evito gli addestramenti, per questo evito di farmi vedere in giro. Il Distretto 13 è enorme, e dalla fine dei Giorni Bui i suoi abitanti si sono insediati in una base sotterranea che si estende per chilometri e chilometri nelle profondità della terra e che doveva essere stata costruita secoli fa, da qualcuno che doveva aver avuto idee lungimiranti e, forse, previsioni sul futuro disastroso che attendeva le nuove generazioni. I bunker hanno livelli su livelli, e da quando ho lasciato quello dedicato all'ospedale non li ho ancora visti e percorsi tutti. Alcuni sono inaccessibili per chi non ha le competenze necessarie, altri invece sono aperti e frequentabili da tutti, come la mensa. Ma i bunker sono anche pieni di cunicoli, come quelli per il riscaldamento e per l'areazione. Alcune volte mi ci nascondo, e passano ore prima che ne esca fuori.
Il mio nascondiglio preferito è l'armadio della cancelleria. Nessuno sembra interessato alla cancelleria, al 13, quindi è maledettamente semplice intrufolarsi qui e dormire ore ed ore quando la realtà torna ad essere di nuovo troppo intensa da affrontare ad occhi aperti.
In questi momenti, anche il mantra del dottor Eliot diventa inutile.
Finnick è il mio compagno di terapia. Anche lui ha una piastrina come la mia, con le stesse parole incise nel metallo. Siamo entrambi mentalmente instabili: siamo compagni anche in questo. Non siamo solo compagni perché proviamo lo stesso, identico dolore. Il dolore per le persone che amiamo, e che ci è impossibile raggiungere.
Finnick non riesce ad elaborare il trauma per la cattura di Annie, ma almeno, da quel che ogni tanto si lascia scappare il dottor Eliot durante le sedute, lui parla. Io non ci provo neanche. Credo che stia più bene di me, Finnick, se riesce ad aprirsi col dottore. Forse lo trova davvero un buon aiuto, ma il suo viso continua ad essere per la maggior parte del giorno triste e privo di attenzione. Non è poi così diverso da quello che ha mostrato alla notizia della cattura della sua fidanzata.
Nel Distretto 13 condivido un piccolo alloggio insieme alla mia famiglia: una stanza con due letti, un piccolo tavolo con delle sedie, e un mobile a cassettoni in cui riporre le divise pulite. Le mie sono diversissime da quelle della mamma e di Prim. Lo sono perché io sono un soldato, mentre loro lavorano all'ospedale e nei settori con gli ambulatori. Non potevamo essere così diverse anche qui, lontane da casa.
La prima notte trascorsa nell'alloggio è stata orribile. Senza più i farmaci ad obnubilarmi la mente, gli incubi hanno ricominciato a svegliarmi e a farmi urlare come una pazza. Urlavo, piangevo, tremavo e stringevo tra le dita la camicia da notte all'altezza della pancia, alla ricerca di ciò che mi ero così abituata a sentire, anche mentre dormivo, e che non c'era più. Non c'era più, proprio come nei miei incubi. Mamma e Prim ci hanno messo un bel po' a calmarmi. Hanno pianto insieme a me. Hanno pianto per quella piccola vita che, come me, non sono riuscite a conoscere.
Prim è rimasta a dormire nel mio letto, esattamente come era accaduto dopo il mio ritorno dall'arena l'anno scorso. Lei si è addormentata di nuovo, io invece no. Non ci riuscivo. La mamma voleva darmi qualcosa per farmi dormire, ma io gliel'ho impedito: non li volevo, i farmaci, e non li voglio prendere mai più. Dormire sotto farmaci è peggio di non dormire affatto. Rivivere gli incubi sotto farmaci è peggio, quando non puoi svegliarti ed allontanarli. Ero sempre terrorizzata quando mi svegliavo, all'ospedale... e lo sono ancora, terrorizzata. Sarò sempre terrorizzata. Lo sarò per il resto della mia vita.
Con il cuore impazzito ed il respiro veloce, sono scesa dal letto e ho raggiunto, cercando di non fare rumore, il cassettone, aprendo quello destinato ai miei vestiti. Poche ore prima Prim mi aveva mostrato ciò che per giorni e settimane intere mi aveva tenuto celato. Credeva che non fossi abbastanza forte per sopportare la loro vista. E forse non aveva tutti i torti: non ci sarei riuscita, prima. Neanche ora lo sono, se è per questo, ma il fatto che non urli davanti a questi oggetti vuol dire già molto.
Avvolti all'interno di un paracadute di seta, quello che portavo legato alla cintura nell'arena, c'erano una spillatrice argentata e la mia spilla dorata. E accanto, piccola e bianca, la perla.
La perla che mi aveva donato Peeta.
L'ho presa tra due dita e, dopo averla osservata al buio, ho rimetto a posto il resto degli oggetti prima di tornare nel mio giaciglio cercando di non svegliare Prim, stringendo la sfera nel palmo della mano. È talmente piccola che non mi sembrava quasi di percepirla contro la pelle, tenendo la mano serrata nel modo in cui lo stavo facendo. Se avessi stretto un po' più forte, avrebbe potuto oltrepassare lo strato di pelle e scavare un solco nella carne.
Questa perla è tutto ciò che mi rimane di Peeta. Un altro dei suoi pegni d'amore. È stato il suo ultimo regalo per me... e lui, di me, non ha nulla.
Ho portato il pugno chiuso sulla bocca, in un bacio muto che racchiudeva dentro di sé un urlo. Ho serrato gli occhi per non vedere le terribili immagini che avevano preso di nuovo vita davanti a me.
Quella è stata la prima notte di tante, di tutte le successive. Dopo ogni incubo prendo la perla, la stringo nella mano e mi aggrappo ad essa per superare le ore buie. Mi aggrappo al ricordo di Peeta che era sempre presente per me dopo un incubo, pronto a consolarmi e a tranquillizzarmi, scacciando il male di quelle immagini. Mi aggrappo all'immagine di Peeta, il primo viso che riempiva i miei occhi ogni volta che mi svegliavo, mentre adesso la prima cosa che vedo al mattino è una parete grigia. Mi aggrappo all'ultimo ricordo che ho di Peeta per poter andare avanti. Mi aggrappo alle ultime parole che ci siamo scambiati, quell'ultima notte nell'arena, prima che tutto ci sfuggisse dalle mani.
Fa attenzione.
Ci vediamo a mezzanotte.

Nel silenzio della notte (In The Still Of The Night)Where stories live. Discover now