Capitolo 39

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- Non ne sono capace, Gale – mormoro, angosciata. – Non l'ho mai fatto prima, ho solo visto mia madre che-
- Fallo e basta, Katniss – mi zittisce lui.
- Sei comunque la persona più competente tra di noi – mi incoraggia Peeta.
Non sono competente, penso. Stringo tra pollice e indice l'ago ricurvo e, in qualche modo, nella mia testa si tramuta in un'arma molto più pericolosa. Gli sguardi di Pollux e Cressida sembrano trasmettermi le stesse sensazioni. Non uno strumento curativo, ma una bomba a mano.
- Muoviti – dice Gale digrignando i denti.
Li digrigna ancora e trattiene il respiro quando inizio a praticare la sutura sulla ferita che ha lungo il collo.
- Mi dispiace – bisbiglio.
Cerco con tutta me stessa di concentrarmi sui punti da applicare e di resistere alla tentazione, molto forte, di mollare tutto e di scappare via, fuori da questa cantina in cui abbiamo trovato rifugio.
Del numeroso gruppo di cui facevamo parte fino a due ore fa, solo in cinque siamo riusciti a sopravvivere. Cinque, su quattordici. La Squadra di Stelle si è trasformata in una Squadra di Morte. La fortuna non è stata esattamente dalla nostra parte... ma quando mai lo è stata?
Lasciare quell'appartamento per tentare di farci strada nelle fogne, sottoterra, ha funzionato all'inizio: mentre in superficie i Pacificatori e le squadre di intervento cercavano di rinvenire i nostri cadaveri, che pensavano essere carbonizzati e sepolti al di sotto delle macerie del condominio che avevano dato alle fiamme, noi ci facevamo strada al di sotto dei loro piedi per arrivare il più possibile vicini all'abitazione del presidente Snow. Tentavamo di arrivare alla nostra meta, alla meta che ho finto essere lo scopo della missione che la stessa Coin mi aveva fintamente incaricata di portare a termine. Così come avevamo appreso dalla tv di stato, fino all'indomani mattina dovevamo essere in una botte di ferro e nessuno, prima di allora, avrebbe capito che, in realtà, eravamo vivi e vegeti. Siamo anche riusciti a riposare per qualche ora, al riparo di una sorta di sgabuzzino pieno di macchinari di qualche altra sorta.
Eravamo certi, grazie anche alla guida di Pollux che, essendo un senza voce, per anni era stato costretto a lavorare al servizio di Panem in questi corridoi sotterranei, di avere ormai un certo vantaggio sui nostri eventuali inseguitori e di poter trovare, prima dell'inizio delle ricerche vere e proprie, un rifugio sicuro. Un posto per riposare, per riprendere le forze e per capire e studiare come andare avanti coi nostri piani.
Ed invece...
Capitol City ci ha sguinzagliato dietro gli ibridi. Degli orribili, disgustosi e terrificanti ibridi metà uomini e metà lucertola che puzzavano di rose. Persino nelle fogne, in mezzo al puzzo dell'immondizia, dei liquami e delle scorie chimiche, il loro odore riusciva a prevalere. Il mio olfatto ne è stato vittima prima ancora che questi ci fossero abbastanza vicini da vederci e da attaccarci. Mi sono bloccata, a causa di quell'odore. È lo stesso odore delle rose di cui si circonda sempre il presidente Snow, l'odore che cerca di camuffare quello del sangue che proviene dalle piaghe nella sua bocca. L'odore delle rose che usa per comunicare esclusivamente con me, per comunicare gli eventi che accadranno di lì a poco. L'odore che usa per colpirmi, per spaventarmi.
So dove ti trovi.
So come raggiungerti.
So come fare per uccidere te e tutti gli altri.
La Jackson è stata la prima vittima di quelle creature spietate ed orribili, perché il suo ultimo gesto è stato spintonarmi verso gli altri, verso Pollux che, davanti a tutti, tentava di mostrarci la via più sicura per la salvezza. Homes, Messalla, Finnick... anche loro sono caduti a causa degli ibridi.
Sono rimasti indietro per consentirci di risalire dalle fogne attraverso un cunicolo, accessibile solo grazie ad una scala traballante. Sono stata l'ultima a vedere Finnick vivo, vivo e ferito, circondato da tre di quelle creature che lo dilaniavano con i loro artigli e le loro fauci. Urlava il mio nome, mi implorava di ucciderlo. Non di salvarlo, ma di risparmiargli altre sofferenze. Di uccidere lui, non gli ibridi. Ho innescato il sistema di autodistruzione dell'Olo e l'ho lasciato cadere lungo il cunicolo; mi sono scostata e riparata come potevo mentre l'esplosione provocata dall'Olo uccideva tutti quanti, più in profondità. Ibridi, mostri... e Finnick.
Come avrei potuto confessare ad Annie di essere stata proprio io ad aver causato la morte di suo marito? Suo marito, ed il padre del suo bambino. Un bambino rimasto orfano del padre mesi prima di venire al mondo.
Il cunicolo ci ha portati dritti al Transito, l'area costruita subito sotto le strade di Capitol City adibita allo scarico e alla consegna delle merci. È una zona perennemente buia anche durante le ore del giorno, e frequentata per la maggior parte dai senza voce come Pollux. Lui ha iniziato a correre, ci ha fatto segno di seguirlo ma abbiamo scoperto di essere circondati da parecchie figure vestite di bianco. Ho temuto che fossero altri ibridi, ma invece erano i Pacificatori incaricati di far fuori noi superstiti sbucati dalle fogne. Hanno cominciato a spararci addosso, hanno colpito Castor che è caduto a terra e non è più riuscito a rialzarsi, gli occhi improvvisamente ciechi come quelli che ho visto sul volto di Boggs. Abbiamo risposto al fuoco con i fucili, riversando interi caricatori sulle truppe, ed io e Gale gli abbiamo lanciato contro anche le nostre frecce incendiarie, ma non quelle esplosive: rischiavamo di far saltare in aria tutto quanto, compresi noi. Le frecce hanno attivato alcuni baccelli e li hanno neutralizzati sul nascere, prima che potessero colpirci... ma non potevamo fare nulla contro quelli che ci colpivano dall'alto.
Con il Transito sgombero dai Pacificatori, abbiamo ripreso la nostra folle corsa verso le vie superficiali e superato una serie di raggi gialli ed abbaglianti che si attivavano al nostro passaggio, simili ad innocue colonne decorative ma mortali, decisamente più mortali. Il corpo di un Pacificatore morto è svanito all'improvviso, si è dissolto nel nulla al contatto col raggio. Abbiamo corso a zig-zag per evitarli, incitandoci a vicenda, e quando è svanita la zona delimitata dai raggi il pavimento dietro di noi ha cominciato a sbriciolarsi, trasformandosi in un enorme baccello che invece di fermarsi sembrava inseguirci, col solo intento di raggiungerci ed inghiottirci nel sottosuolo. Le scale per l'accesso alla strada distavano meno di cento metri e le abbiamo raggiunte nel più insperato dei miracoli. L'ultimo a saltare prima che il pavimento si disintegrasse del tutto è stato Gale, con la balestra stretta in una mano e l'altra a coprire uno squarcio sanguinante sul lato sinistro del collo.
Fuori, per le strade deserte, è ancora buio, anche se non manca poi molto all'arrivo dell'alba. La neve ha cominciato a cadere, lenta, e a ricoprire l'asfalto sotto i nostri piedi. Faceva freddo, ci muovevamo rapidi e ci guardavamo attorno circospetti, tesi e pronti a colpire al minimo accenno di allarme. Eravamo rimasti in pochi, eravamo debilitati, scossi e feriti, come Gale, e facilmente riconoscibili, come me e Peeta. I nostri manifesti da ricercati sembravano seguirci ad ogni angolo, ad ogni incrocio. I loro occhi sembravano scrutarci come se nascondessero gli obiettivi delle telecamere. Ho provato l'impulso di scagliare una freccia contro la mia stessa foto da ricercata, ma ho evitato: una freccia sarebbe stato un dettaglio difficile da non notare qui in mezzo. Chiunque, qui, sa chi è che ha la passione per le frecce, e non avrebbero impiegato che pochi secondi a capire chi l'aveva scagliata.
- So dove siamo! – ha soffiato Cressida ad un certo punto. – Riconosco queste strade.
Ci ha fatto segno di seguirla e, dopo aver attraversato un incrocio deserto, si è fatta strada lungo una via dall'aria cupa, semi abbandonata e poco raccomandabile. Non assomigliava per niente al resto delle vie della città; a smentire il tutto, le pazze vetrine dei negozi che abbiamo superato di corsa e su cui il nostro sguardo scivolava veloce. Cressida si è fermata davanti alla porta di un negozio che vendeva indumenti di pelliccia, ha bussato sul vetro smerigliato ed è rimasta in attesa, e noi dietro di lei.
La figura alta e slanciata che ha aperto aveva le sembianze di una donna gatto: non ho trovato altre parole per descrivere il suo volto magro, pesantemente ritoccato dalla chirurgia, ed i tatuaggi neri e arancioni che simulavano il manto di una tigre. Aveva persino i baffi. Si stringeva in una pelliccia tigrata arancione e, nonostante l'insieme disturbante, ne sono comunque rimasta affascinata.
Cressida l'ha chiamata Tigris, e questo nome ha richiamato qualcosa in me. Ma certo: gli Hunger Games. Ancora, di nuovo e sempre gli Hunger Games. Tigris era una stilista dei giochi, una delle più famose e iconiche; sono anni che si è ritirata dalla carriera stilistica, ma non avevo mai pensato che... cosa? A cos'è che non avevo pensato? A parte Cinna e Portia, gli unici stilisti che abbia mai conosciuto, non ho mai pensato nulla riguardo a questa professione in particolare. Non ho mai avuto attrazione ed interesse per cucito, tessuti e via dicendo. E di certo, la donna gatto che avevo davanti era l'ultima delle persone che avrei mai pensato di incontrare nel corso della mia assurda vita.
- Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Tigris – l'ha implorata Cressida.
La donna ci ha fatto entrare e, dopo aver chiuso di nuovo a chiave l'ingresso del negozio, ci ha condotti verso il retro; ha spostato un sacco di espositori straripanti di pellicce, ha sollevato un falso pannello del pavimento ed ha rivelato la botola che vi si celava sotto. Ha sollevato anche quella, mostrandoci il passaggio buio da seguire.
- Seguite la scala – ci ha detto con voce graffiante e roca; esattamente la voce che potrebbe avere un gatto se avesse la possibilità di parlare.
La scala ci ha portato in questa cantina semi buia ed umida, piena anch'essa di vecchie pellicce forse troppo fuori moda per essere esposte e vendute, ma per quanto buia e umida, almeno era sicura. Cressida ci ha detto che era un luogo sicuro approvato da Plutarch. Per quanto scomodo, era un posto in cui poter curare le ferite e riposare senza sentire la minaccia continua delle autorità, e senza avere una pattuglia di Pacificatori contro il collo.

Nel silenzio della notte (In The Still Of The Night)Where stories live. Discover now