Capitolo 35

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Yes it's a hard life
In a world that's filled with sorrow
There are people searching for love in every way
It's a long hard fight
But I'll always live for tomorrow
I'll look back at myself and say I did it for love...

- It's a Hard Life, Queen

I preparativi per il matrimonio impazzano, nel Distretto 13. O almeno è quel che mi racconta Peeta quando viene a trovarmi in ospedale. I ruoli si sono invertiti: adesso sono io quella ricoverata. Lui ha già preso possesso della sua unità abitativa, anche se deve comunque recarsi qui per i controlli... e per la terapia. Dovrei seguirla anche io, in teoria; ma in pratica non ho seguito molte cose, infischiandomene delle conseguenze, da quando sono qui. Non sono stata molto ligia alle regole.
C'è un'altra persona, qui in ospedale, a cui è stato prescritto il supporto psicologico dopo la prigionia a Capitol City: quella persona, ovviamente, è Johanna Mason.
Viene a trovarmi il pomeriggio successivo al mio risveglio; Peeta è andato via da poco, così la mia visitatrice mi trova da sola nella stanzetta in cui mi hanno sistemata. Peeta ha iniziato a dare una mano nelle cucine, aiutando come può: fa il pane, tra le altre cose, e come potrebbe essere altrimenti? Le vecchie abitudini non muoiono mai. Sta anche facendo mente locale su ciò che può servirgli per realizzare la torta nuziale di Annie e Finnick. Ha preso molto sul serio questo compito... come prende sul serio tutto ciò che fa, del resto.
Compreso cercare di farsi quasi ammazzare per poter salvare la mia vita.
Ma questo è un altro discorso.
Johanna entra di soppiatto, sulle punte dei piedi scalzi, silenziosa e letale come ho imparato a conoscerla durante l'addestramento e durante gli Hunger Games a cui abbiamo partecipato insieme. Sonnecchio, dato che non ho molto altro da fare, a parte stare semisdraiata nel mio letto ad ammazzare il tempo, quindi non mi accorgo subito del suo arrivo; lo faccio solo quando si siede di slancio sul materasso, ed a maggior ragione perché mi fa sobbalzare per lo spavento, provocandomi fitte dolorose alle costole ed un principio di tachicardia.
- Ciao, idiota – mi saluta, sorridendo beffarda. – Carino da parte tua venire a farmi compagnia.
- Johanna – ansimo. La osservo mentre cerco di regolarizzare il respiro, o meglio, la studio. Studio la giovane donna che mi sta seduta davanti e, rispetto all'immagine che ho della notte del suo salvataggio, noto che sta piuttosto bene. Non ha più il volto segnato e scavato, è meno pallida, e una peluria scura le ricopre il cranio. Gli occhi sono sempre gli stessi: attenti, e carichi di disprezzo e di ironia. Proprio come li ricordavo.
- Che c'è, ti piaccio per caso? – domanda, allargando il suo ghigno.
- Non mi piacerai mai – le dico, puntando le mani sul materasso. Mi sollevo di poco, quello che le mie ferite mi consentono prima dell'arrivo del dolore. – Ti trovo bene – aggiungo.
Johanna sbuffa. – Se lo sento ripetere un'altra volta... devo incontrare uno strizzacervelli almeno una volta al giorno, e solo per sentirmi dire che qui sono al sicuro. Come se ripeterlo bastasse a sistemare le cose - mi afferra un braccio con la sua solita delicatezza e mi sfila il tubicino della morfamina per inserirlo nell'ago che ha ancora nel suo, di braccio. – Non ti dispiace, vero? Mi stanno diminuendo le dosi da qualche giorno. Hanno paura che possa diventarne dipendente, come gli strambi del 6. Te li ricordi?
Come dimenticarli? Una di loro, la donna, ha salvato la vita a Peeta, sacrificandosi durante lo scontro con le scimmie ibride nell'arena. Ed ancora non conosco il suo nome. Ma a Johanna dico solo: - Serviti pure.
- Peccato che il tuo fidanzatino sia stato dimesso prima del tuo arrivo; avrei potuto farmi dare un prestito anche da lui – ammette. Non appena la morfamina le entra in circolo sospira di sollievo... o di piacere. Forse un po' dipendente lo è diventata. Ma sarebbe davvero un problema? Dopo tutto ciò che ha passato è un miracolo se ragiona ancora con lucidità. Come Peeta: è un miracolo se le ombre del terrore non lo hanno inglobato nelle loro spire.
- È stato qui fino a poco fa – le dico.
- Oh, lo so. È per questo che ho aspettato che se ne andasse prima di venire a scroccarti la morfamina: ieri mi ha beccata a farlo e mi ha cacciata via.
Ridacchio. – Hai paura di Peeta?
- Lo rispetto, il che è diverso dall'averne paura – Johanna osserva il sacchetto della flebo. – Non può che essere così. Ci siamo dati forza a vicenda mentre eravamo laggiù. Io conosco a memoria le sue urla, e lui conosce a memoria le mie – mi guarda. – Cosa ti ha raccontato?
Deglutisco. – Lui? Nulla. Ho dovuto origliare per sapere – ammetto. - Lui personalmente non vuole che sappia niente.
- Tipico. Non ho mai conosciuto una persona più cocciuta di Peeta Mellark.
- Già. È una sua brutta abitudine.
- E tutto questo perché è innamorato di un idiota! Cosa ci troverà mai in te...
Dovrei sentirmi in qualche modo offesa da questa sua sorta di insulto, ma non lo sono. Per niente. Gli insulti di Johanna non mi danno più così fastidio.
Segue un momento di silenzio, in cui restiamo ad osservarci a vicenda, soppesando lo sguardo l'una dell'altra. Non è quel tipo di silenzio pesante, o imbarazzante: è come se si fosse instaurata della complicità tra di noi. Strano a dirsi, per due persone come noi che non sopportano la compagnia reciproca. I ricordi dell'ultima spedizione nell'arena sono ancora molto vividi nella mia mente, compresi gli schiaffi e gli insulti che mi ha rivolto contro. Ma sopra a tutto il resto, ci sono due momenti che non potrò mai cancellare: quando mi ha tirata fuori dall'acqua dopo il volo dalla cornucopia, e quando mi ha messa ko per togliermi il localizzatore dal braccio. Lo ha fatto per salvarmi la vita in entrambe le occasioni. Le sono in debito. E non ho ancora fatto nulla per ricambiare questo debito.
- Mi dispiace per ciò che ti hanno fatto, Johanna – mormoro. Sono sicura che odierà ogni parola che è uscita dalla mia bocca; saranno simili a quelle dello strizzacervelli che le fa visita.
- Non è a te che deve dispiacere, idiota. È agli imbecilli che guidano questo posto che dovrebbe importare qualcosa – esclama, irosa, ma poi si calma. – Al Mellark non l'ho detto, ma a me dispiace per ciò che ti ho fatto quella notte.
Inarco le sopracciglia: Johanna mi sta chiedendo scusa? Deve essere davvero arrivata la fine del mondo. – Che dici? Sono in debito con te, Johanna. Mi stavi salvando la vita.
Lei mi fissa come se fossi un'ottusa. – Sì, ma non è questo il punto. Non volevo mica ammazzarti la mocciosa – brutale, ma onesta. Ancora una volta, è uno schiaffo in pieno viso. - È vero che li odio, i mocciosi, ma non li ucciderei mai. Penso solo che, forse...
- Non sei stata tu – mi affretto a dire per farla tacere. L'ultima cosa che vorrei fare, ora, è crollare davanti a lei. Un conto è crollare davanti a Gale, che ne sa già abbastanza dei miei momenti storti, ma Johanna è un tutt'altro paio di maniche. – Hai fatto quello che dovevi. Non era tuo compito... pensare a lei.
- Già, quello era il tuo compito – dice. Non c'è nessun tono di accusa, stavolta, nella sua voce. Sembra quasi dolce. Una Johanna dolce, in qualche modo, è più preoccupante di una Johanna arrabbiata. – Ma non è nemmeno colpa tua se l'hai persa.
- E di chi altri? – chiedo con voce rotta.
- Del sistema. Tu non c'entri nulla in tutto questo – mi stringe una mano.
Farsi confortare da Johanna Mason è l'avvenimento meno probabile che mi sarebbe potuto capitare nella vita... eppure sta accadendo proprio adesso. Molto ironico, da un lato. Non saremo mai davvero amiche, ma forse riusciremo a tollerarci a vicenda.
Mi schiarisco la voce. - Ci hanno ridotto proprio male, eh? – scherzo.
- Parla per te. Io sto benissimo! – ribatte, staccando la flebo della morfamina per rimetterla nel mio braccio. – Tornerò domani per un altro giro di sballo.
Oh, sì, sta decisamente bene.

Nel silenzio della notte (In The Still Of The Night)Where stories live. Discover now