capitolo 39. Libertà.

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L'orologio segnava le 2:45 del mattino.
Ero sveglia sotto le coperte a fissare il soffitto. Avevo voglia di uscire da quella stanza di prendere aria e mi giravo e rigiravo sperando di spazzare via i brutti pensieri.
Mi sentivo esausta, stanca, appesantita, senza neppure avere la forza di chiudere gli occhi per riposare.
I dottori avevano iniziato a torturarmi con l'elettroshock, perché proprio in quei giorni avevano capito che le medicine non bastavano per farmi stare buona.
Ero bloccata in un mondo fatto di dolore e risentimento da cui non c'era via d'uscita.
Non piangevo neppure più.
Sam mi faceva compagnia tutte le notti ed ogni volta nutrivo la speranza che lei potesse tornare, ma ogni volta spariva nei meandri dell'oscurità.
Mi alzai nel buio più totale.
Avevo la bocca asciutta, non riuscivo nemmeno a deglutire.
Raggiunsi la porta sbarrata da cui proveniva l'unica luce ancora accesa, quella del corridoio e mi aggrappai con tutte le mie forze ai tubi di ferro con una mano, mentre con l'altra battevo forte sulla porta.
<Infermiera!>
Gridai con voce fioca, avevo bisogno di qualcosa che mi facesse dormire.
<Infermiera!>
La richiamai con un tono un po' più alto.
Corse in mio aiuto la donna che a passo svelto raggiunse in un attimo la cella.
Aveva lo sguardo stanco eppure era di una lucidità impressionante.
<Dimmi cosa c'è?>
<Sto male, ho bisogno di aria.
La prego apra.>
Sentivo che stavo per svenire non riuscivo più a respirare in quel buco.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime stavo per avere una crisi di panico
Le sbarre alla porta bloccavano la mia mente al tal punto da procurarmi non solo malessere psicologico, ma anche fisico.
<Non posso, ti porto qualcosa per dormire ok?>
<Ti prego sto per svenire, non riuscirei ad arrivare nemmeno col naso fuori dalla porta...>
Ero quasi in ginocchio sfinita, sentivo di poter morire in quel istante.
<Torno subito Leyla!>
Si allontanò un paio di secondi e ritornò con il carrello dei medicinali ed un paio di siringhe preparate sul piano.
<Spostati adesso entro, lascio un po' la porta aperta mentre ti preparo un tranquillante!>
Annuii mentre un paio di lacrime rigarono il mio volto per la compassione che aveva avuto quella donna.
Mi lasciai andare su una sedia poco distante dalla porta.
Quando la giovane infermiera entrò quello spiraglio di aria mi colpì il viso.
Assaporavo la libertà che sventolava la sua bandiera a pochi centimetri da me.
Riuscivo a vederla quasi, riuscivo a proiettare tutta me stessa nel mio appartamento al quinto piano di uno dei tanti palazzi trasandati di un quartiere pessimo di New York.
La mia vita prima di certo non era un idillio, ma nulla poteva essere paragonato a quello che stavo vivendo lì dentro.
Una piccola voce dentro di me mi diceva che dovevo combattere, dovevo riconquistarmi la libertà.
Ma come?
Ogni giorno perdevo sempre di più la speranza. Ero bloccata in una dimensione che impediva a me stessa di vivere.
E fu proprio nel momento in cui aprii gli occhi che la libertà mi chiamò a sé fuori dalla porta.
Mi alzai lentamente cercando in me stessa la forza di non cadere presi una siringa dal carrello ed in men che non si dica, prima che la donna potesse accorgersene di quello che stavo per compiere o replicare, l'aggredii spietatamente alle spalle mentre era intenta a prepararmi un altro cocktail di schifezze.

Si accasciò a terra ed io presa dal panico uscii di corsa da quella cella asfissiante, lasciando agonizzante la ragazza con una dose di tranquillante sparato nella carotide.
L'avevo fatto. Stavo correndo lungo quel corridoio stretto illuminato da una fievole luce.
La libertà era al mio fianco mi teneva per mano, riuscivo a sentirla stretta alla mia e più la guardavo più ero convinta di ciò che avevo appena fatto.
Non avevo alcun rimorso, nessuna pietà.
Non sapevo se avessi ucciso o no quella poverina distesa in quella stanza, ma se c'era una cosa che avevo imparato in quel posto di merda è che a nessuno interessa della tua sofferenza se non a te stesso.
Arrivata davanti allo spogliatoio del personale mi intrufolai all'interno.
Adesso non potevo rischiare di essere scoperta.
Entrai alla ricerca di una divisa, di un qualcosa che riuscisse a farmi passare inosservata.
Trovai devi vestiti da donna su una sedia, probabilmente quelli della ragazza di turno.
Mi tolsi il camice bianco che indossavo per dormire e m'infilai prima il jeans e poi la felpa bordeaux.
Ero diventata così magra che qualsiasi cosa mi sarebbe entrata senza difficoltà.
Poco dopo mi resi conto che ero a piedi nudi, ma espezionando bene la stanza trovai un paio di stivali che calzai all'istante.
Ero pronta...
Uscii con il cappuccio sulla testa cercando di nascondere i miei lunghi capelli biondi, anche se qualche riccio ribelle usciva di tanto in tanto.
Raggiunsi l'ascensore e se fino al quel momento tutto era sembrato pressoché facile sapevo che c'era qualcosa che non andava.
Ero in ansia e contavo i piani con la speranza che con me non fosse sceso nessun'altro.
Arrivata al piano terra c'era un via vai di gente che velocemente passava da una stanza all'altra.
Era successo qualcosa, forse già avevano saputo di quello che era successo, forse appena fossi uscita dalla soglia dell'ascensore sarebbe finito tutto.
Feci un passo in avanti e nessuno parve accorgersi di me e poi la rividi.
La libertà mi guardava seducente e mi chiamava; con un gesto delle mani mi invogliava a raggiungerla fuori dalle porte scorrevoli.
Era così bella luminosa e raggiante fluttuava sospesa per aria.
Così senza dare nell'occhio, a piccoli passi arrivai all'uscita e finalmente dopo tanto tempo respiravo l'aria di quella notte umida e piovosa.

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