Capitolo 17. Emozioni.

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<Tanti Auguri a teee! Tanti Auguriii piccolo ometto, Tanti Augurii a tee!>
Cantai al telefono, mentre Billy dall'altro lato sghignazzava dalla gioia.

Erano le 10:40 del mattino e il mio primo pensiero appena sveglia fu quello di chiamare la mia piccola peste lontana da me 39 ore di viaggio e più di 3000 km di distanza. Mi mancava.

<Leyla!! GRAZIE!>
Disse felice e molto probabilmente commosso. Sapevo bene che effetto gli facesse sentirmi cantare e la distanza contribuì a rendere il tutto ancora più toccante.

<Allora piccolo, Sam ti ha dato il mio regalo?!>
Domandai curiosa,  ero sicura di averci preso questa volta.
<Si sorellona, il tuo skateboard è fantastico! L'unico problema é che sono praticamente negato per andarci sopra!
Invece il nuovo videogame che mi ha regalato Sam é sensazionale!>
Lo sapevo, un altro buco nell'acqua.
Se volevi rendere felice mio fratello, dovevi comprare giochi tecnologici o libri.
Era un caso perso.
<Ma dai, ti insegno io ad andarci é fighissimo! Sei pigro Billy!>
Lui scoppiò in una rumorosa risata, ma avevo capito benissimo che il suo skate avesse, ormai, fatto la stessa fine dei pattini, della bici e del monopattino comprati gli anni precedenti.

<Sai, tra un po' arriva la mamma!>
Esclamò eccitato, ancora divertito.
Il mio sorriso invece si spense.
Solo a sentirla nominare mi si ribolliva il sangue nelle vene.
Billy sapeva che tra me e lei non c'era molto affetto, anzi era proprio inesistente. Il suo abbandono mi aveva segnato nel profondo e nessuno avrebbe potuto farmi cambiare idea.

Lui, invece, sembrava quasi amare quella donna, di sicuro per tutta la vita aveva sentito la sua mancanza e ciò lo portava a giustificare il comportamento totalmente ingiusto di nostra madre. A me dava fastidio anche considerarla tale, ma odiavo sopratutto essere paragonata a lei ed era impressionante quanto le somigliassi, anche se proprio non riuscivo ammetterlo.
Stesso taglio degli occhi, stessa forma del viso, stesso naso sottile e piccolo, stessi lineamenti, la sua fotocopia in tutto, tranne che per gli occhi e per il colore dei capelli.
<Mi raccomando Billy non raccontare a quella donna troppe cose private, anzi non parlare proprio di me.>
Il mio tono era severo ed inflessibile, non mi fidavo.
Ero in agitazione e non facevo altro che giocherellare con la cintura della vestaglietta di raso blu.
<Ma...>
<Non mi contraddire, tu non la conosci.>
Lo interruppi in modo brusco, come sempre aveva da ridire.
Questa volta però non gli avrei permesso di contrabattere e ne tantomeno di giocare all'investigatore privato.
Se era ripiombata di nuovo nelle nostre vite, non si prospettava nulla di buono.
Quella donna gli avrebbe procurato solo sofferenze ed a me solo rogne, ma ciò che più mi preoccupava era la paura che potesse portarmelo via ed io non gliel'avrei mai permesso.

Qualcuno bussò alla porta. Finalmente il mio servizio in camera era arrivato ed io avevo assolutamente bisogno di bere il mio caffè mattutino.
<Ti devo lasciare piccolo, mi raccomando.
Tieni la bocca chiusa.>
<Ok, va bene...Ciao!>
Disse arreso, come se avesse perso tutte le speranze di convincermi ad abbassare le difese.
Staccai, ma non riuscivo a distogliere i pensieri e restai qualche secondo a fissare il muro davanti a me, fin quando il forte battere sulla porta di legno non mi fece ritornare alla realtà.
Mi sistemai di nuovo la vestaglietta e andai ad aprire.
Il ragazzo entrò e posò sul letto il vassoio con la mia colazione, poi mi sorrise e con un cenno del capo si congedò.
Su quel vassoio c'era l'impossibile: marmellata, burro, croissant, uovo e pancetta, pane tostato, succo di frutta alla pesca ed un bicchierone di caffè.
Lo afferrai avidamente e iniziai a berne il contenuto. Era quello la mia colazione.
Mi sentivo una principessa, ma di prima mattina non ero abituata a mangiare così tanto.
Mi limitai solo a dare un paio di morsi alla brioche vuota, piena di zucchero a velo e poi spostai la mia attenzione altrove.
Era una bellissima giornata di sole, i raggi entravano invadenti nella stanza, posandosi sul letto.
L'ambiente  era decisamente disordinato rispetto a quando ci avevo messo piede la prima volta.
Una catasta di vestiti era ammucchiata in un angolo e le cartacce varie dei miei spuntini notturni erano sparse da per tutto.
Avevo invaso l'intera suite che ormai somigliava più ad un campo nomadi, tranne che per  una camera, dove Arthur aveva avuto la premura di chiudere a chiave.
Evidentemente ci nascondeva cose private, chissà, magari frustini manette oppure un arsenale di armi, ce lo vedevo psicopatico pazzo criminale.

Dopo un bel po' di riflessione e con una strana sensazione di inappagatezza, riuscii a prepararmi e a rispettare l'orario di appuntamento che Ramon mi aveva dato per iniziare il sound check e conoscere i musicisti professionisti che mi avrebbero accompagnato.
Arrivai all'Auditorium, era proprio come me l'ero immaginato.
Una sala enorme con tavoli e privè tutt'intorno. La soffice moquette era nera e le tende e le tovaglie Bordeaux.
Grandi lampadari eleganti di cristallo scendevano dal soffitto e su ogni tavolo c'erano posacenere e lumi dalla luce soffusa e bianca.
Il palco rialzato non era molto grande, ma ci stavamo tutti alla perfezione.
Al centro c'era un piano come avevo richiesto e gli altri musicisti stavano già montando ed accordando gli strumenti.
Mi presentai e subito  mi appropriai di carta e penna per mettere giù una scaletta dettagliata e precisa.

Passammo molte ore a provare i brani ed a fare gli ultimi accorgimenti e mentre tutti andarono a pranzare io restai lì a riscaldare la voce ed a segnare gli accordi che avrei dovuto suonare.
Quel momento era molto rilassante per me, avevo dimenticato quando fosse bello trovare conforto nel mio mondo.
Tutto intorno a me taceva, c'ero solo io e la mia musica, la mia vita.
Iniziai a suonare gli accordi di una canzone che avevo scritto qualche tempo fa per Billy e quella sera l'avrei suonata in onore del suo compleanno.
La melodia dolce e lieve accompagnava la mia voce profonda ed armonica.
Ebbi la sensazione di volare e di poter raggiungere un altro pianeta.

La mia pace dei sensi finì nel momento in cui la porta si riaprì.
Era Ramon che accompagnava Arthur, elegante nel suo abito blu, perfettamente in tiro.
Mi fermai di scatto, col le mani ancora piantate sul pianoforte e lo guardai dritto negli occhi.
Quegli occhi profondi, blu, ma estremamente freddi, tristi e bui.
C'era qualcosa che non andava.
Gli sorrisi e lui continuò a fissarmi ricambiando il gesto.

Non so cosa mi successe, ma il mio cuore iniziò a battere forte. Quella era la mia occasione per dimostrargli quanto valevo e cosa ero capace di fare, ma non solo era la prima volta che qualcuno metteva piede nel mio mondo e lo lasciavo passare senza obiettare.
Lui arrivò davanti al palco e senza dire una parola si sedette al tavolo lì vicino.
Con indifferenza cercai di non dargli molta importanza, facendo finta di scrivere qualche accordo ed appunto sullo spartito.
Arthur si portò la mano destra sotto il mento e con la coda dell'occhio notai che  era fasciata.
In effetti non aveva una bella cera sembrava pensieroso e qualcosa dentro di me mi disse che qualsiasi cosa lo affliggesse non era niente di buono.
Il suoi occhi accompagnavano ogni mio movimento e non so per quale ragione sentii il calore invadermi le guance, probabilmente erano diventate rosse, mi spostai i capelli lunghi su un lato e feci finta di nulla.
Dovevo assolutamente spezzare quel imbarazzo.
Iniziai a suonare e cercai con tutta me stessa di distogliere l'attenzione da quella presenza penetrante e forte, che tendeva ogni mio muscolo come le corde di quel pianoforte.
La mia voce era ben riscaldata e per la prima volta mi emozionai cantando.
Non so per quale motivo mi salirono agli occhi le lacrime e facendo attenzione a non farne uscire nemmeno una, smisi di suonare.
Mi voltai verso Arthur, ma non c'era più.
Ramon applaudiva entusiasta sotto al palco, con la solita espressione inebetita, mentre io continuavo a fissare quella porta socchiusa.
Non so cosa mi era preso.
Ero stata invasa da un'ondata di maliconia, paura, ansia e dolore.
Tanto dolore. Forse l'emozione mi aveva giovato un brutto scherzo o forse Arthur in quello sguardo, stava cercando di dirmi
qualcosa.

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