Capitolo 23. Una dea.

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Lo guardavo preoccupata.
In effetti aveva l'aria di uno che avrebbe commesso qualche pazzia da un momento all'altro e la sua vicinanza alla vetrata non mi rasserenava affatto.
<Arthur che hai? Ti senti male?>
Gli chiesi avvicinandomi cauta a lui, che si posò il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni.
<No, tutto bene. Non sono mai stato meglio.>
Il suo sguardo sembrò perdersi fuori dalla finestra.
Non so precisamente cosa stesse pensando, ma il suo tono freddo, distaccato e glaciale mi fece rabbrividire.
Si era chiuso di nuovo in se stesso.
<Ah si, non mi sembra proprio.>
Gli sfiorai una spalla, cercando di farlo ritornare alla realtà.
Il mio tocco sembrò disturbarlo e quasi infastidito si scostò e tornò a guardarmi negli occhi.
<Ho detto che é tutto ok.>
Era furioso.
Istintivamente indietreggiai, mi fece paura.
Si avviò verso la porta e si precipitò ad uscire senza voltarsi indietro, ma lo vidi inciampare in qualcosa.
Corsi verso di lui e mi fermai tra l'uscio e il corridoio.
A terra ai miei piedi c'erano centinaia di rose rosse ed Arthur aveva rischiato di uccidersi per quelle.
Mi scappava da ridere e vederlo poggiato al muro cercando di invocare Ramon, non mi aiutò a contenermi.
<Credo che siano per te!>
Esclamò duro in viso, ricomponendosi e sgattaiolando velocemente nel suo ufficio.
Quando sentii la porta del suo antro sbattere, raccolsi i fiori da terra e rientrai anch'io.

Li poggiai sul letto distrattamente e mi diressi nel bagno.
C'era un disastro anche lì dentro.
La Jacuzzi era diventata una discarica piena di vestiti sporchi, oggetti rotti e acqua rossa.
Avevo dato di matto la sera prima e la cosa mi faceva ancora vergognare.
Lo specchio era ormai frantumato e i suoi pezzi ero sparsi ovunque.
Vidi il mio riflesso tra le crepature del vetro rimasto ancora attaccato al muro ed era più che evidente che avessi bisogno di una sistemata.
Anche la doccia era ridotta male, sporca ancora di sangue e vomito.
Aprii il getto d'acqua e cercai di buttare tutto giù nello scarico.
Quando mi sembrò abbastanza pulita mi infilai dentro e ci rimasi per un bel po'.
Il pensiero di Arthur mi torturava.
Come poteva essere che un uomo come lui avesse perso così tanto la testa per una donna, che tra l'altro l'aveva escluso dalla sua vita non alzando mezzo dito per difenderlo.
Adesso la stronza si era pentita ed era tornata alla base, perché parliamoci chiaro a chi non farebbe comodo essere la donna di uno come Lewis: ricco, bello, ricchissimo.
Arthur era l'ennesima prova che gli uomini in realtà sono coglioni e che nonostante la sua corazza da bastardo, restava comunque un debole.
La sua reazione, però, mi aveva lasciata sconcertata e quello sguardo così carico di rabbia mi aveva provocato una strana sensazione.
Che amasse Veronica non c'era dubbio, la desiderava più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma non riuscivo a spiegarmi il perché di quella scenata.
Sarebbe stato più facile richiamarla e scodinzolare dalla gioia, come un bravo cagnolino.
Evidentemente era proprio questo il problema, moriva dalla voglia di sentirla, ma non voleva fare la figura del fesso.

"Che c'è Trouble, sei gelosa?!"
Eccola lì la mia coscienza, pronta ad azzanarmi.
"Assolutamente no!"
Risposi a me stessa ringhiando e scuotendo la testa lasciando che l'acqua schizzasse dappertutto.

Non ero per niente gelosa, ma l'affetto che avevo iniziato a nutrire per Arthur mi faceva sentire responsabile per lui.
Ripromisi a me stessa che appena mi fossi sistemata, sarei passata nel suo ufficio per vedere se era tutto apposto.
Chiusi l'acqua presi un telo pulito e velocemente mi asciugai, facendo attenzione a non tagliarmi i piedi con le schegge ancora sul pavimento.
Uscii dal bagno e presi un cambio  pulito dalla valigia ancora a terra ai piedi del letto.
Non avevo più nulla di tanto elegante da mettere e finalmente tornai ad indossare i miei altissimi ed estrosissimi anfibi neri.
Mi sentivo molto più al mio agio con i miei vestiti, profumavano di casa mia, odoravano di me.
Spiegai la mia t-shirt a giro maniche preferita e mi affrettai ad abbottonare il pantaloncino di jeans strappato, coperto quasi totalmente dalla maxi maglietta.
Pochi minuti per truccarmi e finalmente ero pronta.
Mi guardai allo specchio finalmente mi riconoscevo.
Io ero quella, una pazza che il 25 dicembre cammina con le calze bucate sul ginocchio ed il giubbino di pelle.
25 Dicembre. Natale. Il mio compleanno.
Mi ero completamente dimenticata.
Per un attimo l'angoscia si aggrappò al mio stomaco e desiderai con tutta me.stessa di ritrovarmi a casa e di spegnere le candeline insieme a Billy, su una bella torta preparata da Sam.
Mi mancavano.
Senza pensarci su, corsi nella stanza da letto e cercai nella mia borsa il cellulare.
Quel mattone storico era l'unico collegamento rimastomi con la mia famiglia, dopo che avevo distrutto anche il telefono al povero Arthur.
Aspettai che si accendesse e quando non vidi neppure una chiamata persa mi si gelò il sangue nelle vene.
Esitai un po' prima di digitare il numero di telefono di Sam, poi, dopo qualche squillo la biondina rispose.
<Pronto?!>
C'era un frastuono incredibile. Dove cazzo erano finiti?!
<Sam. Sam, mi senti?!>
<Katrinaaa abbassa il volume sono a telefono!>
<Sam ma che diamine state combinando?!
Mi state distruggendo l'appartamento?!>
La musica non si sentiva più ma il mio tono era ancora molto alto. Ero furiosa. Mia madre era lì.
<Hey Leyla... buon compleanno tesoro!! Ti avrei chiamato non appena fossi riuscita a sistemare tutto. Billyyy vieni c'è Trouble al telefono!!>
Era agitata, probabilmente la presenza di Katrina pesava anche a lei.
Quella donna metteva in subbuglio tutto ciò che si ergeva davanti a lei.
Ti destabilizzava, ti sconvolgeva e poi quando finalmente ti abituavi a lei, spariva.
<Hey Trouble! Buon compleanno sorellina!>
<Hey piccolo... Mi manchi lo sai?>
<Anche tu. Vedrai il regalo della mamma piacerà anche a te!>
<Che regalo?>
<È uno stereo quelli di ultima generazione con delle casse enormi, ci sono anche i microfoni!! É fantastico!>
Sentire quella vocina così eccitata al telefono, cancellò per un attimo la mia rabbia, che presto si tramutò in sensi di colpa e tristezza.
<...Va bene piccolo, Ok. Io vado, grazie ancora per gli auguri, salutami Sam.
Ciao.>

Quando agganciai sulla bocca avevo il sapore della sconfitta.
Mi faceva male al centro del petto, il dolore era così insopportabile che mi prese allo stomaco.
La mia più grande paura si stava avverando, al mio ritorno dovevo ristabilire l'equilibrio.
Mi massaggiai il punto in cui sentivo che qualcuno ci avesse infilato un coltello.
"Il cuore non fa male. Stupida. Tu il cuore non ce l'hai."
Pensai tra me e me.
Dovevo di nuovo autoconvincermi di questo e per riuscirci dovevo ancora una volta mettere da parte Leyla ed essere Trouble.

Mi misi la giacca di pelle lunga fino alle caviglie e la lasciai aperta.
Presi le sigarette ed uscii dalla camera.
Dovevo respirare.
Raggiunsi l'ascensore e scesi giù al piano terra.
C'era un via vai di gente ben vestita e non.
Uomini d'affari e poveracci in cerca di fortuna.
A grandi falcate arrivai alla porta tutta di vetro, la tirai ed uscii fuori.
Il sole era alto nel cielo anche se un po' coperto, ma faceva un freddo così pungente che sentii le mie labbra irrigidirsi.
Il cambio immediato di temperatura mi fece sussultare, non immaginavo che si gelasse.
Mi poggiai allo stipite della porta e mi accesi una sigaretta.
Finalmente sentivo che stavo smaltendo la rabbia martellante che avevo in me.
Dovevo riuscire a gestirla e a conservarla per le occasioni giuste.
Aspirai ancora un altro po' di fumo dalla sigaretta e lo trattenni di più in gola, sperando che così la nicotina agisse più in fretta sul mio sistema nervoso.
Ero beatamente assorta nei miei pensieri quando un grosso macchinone si fermò davanti all'ingresso.
Due uomini alti e muscolosi vestiti di nero ed occhiali scuri uscirono  dall'auto.
Per quanto ne so io, da lì dentro sarebbe potuta uscire Queen Elisabeth  in persona.
Uno dei due bestioni aprì la portiera e l'altro aiutò una giovane donna a scendere.
Una donna bellissima, la più bella che abbia mai visto in vita mia.
Probabilmente si trattava di una modella, di un'attrice o di una ricca ereditiera.
Camminava lentamente seguita dai due uomini. Il suo sguardo era fisso sui suoi piedi chiusi in un paio di scomodissimi décolleté color cipria a spillo.
Ci camminava così bene che sembrava fosse a piedi nudi.
Doveva essere una donna importante ed elegante. Il suo portamento era proprio quello di una gran signora, una di quelle vere, non di certo un'imbrogliona come me.
Il colore verde smeraldo e la camicia candida mettevano il risalto i suoi occhi chiari, che sembravano riflettere al sole.
Il vento soffiava tra suoi capelli, mentre lei si stringeva ancora di più nella sua pelliccia di visone bianca.
Richiusi chi occhi e li riaprii.
Sembrava una visione, una dea, ma era proprio lì davanti a me.
Per qualche secondo i nostri sguardi si incrociarono.
I suoi occhi erano tristi, c'era qualcosa in lei che non andava.
Riuscii a  captare un po' delle sue sensazioni: la paura, l'angoscia, la delusione.
Un qualcosa scattò nel mio cervello.
Ancora una volta lasciai il via libera alla mia mente di elaborare.
Arthur, il suo ufficio, il quadro.
Veronica. Quella donna era Veronica.
La porta di vetro si richiuse, lei stava andando da lui.
Non mi sembrava poi così stronza ed adesso capivo perché Arthur avesse perso la testa per lei.
Gettai il resto della cicca di fretta e furia, dovevo correre da Ramon.
Subito.

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