Capitolo 15. Il segreto.

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Seguivo i due ragazzi davanti a me, che giunti alla camera numero 999, l'aprirono con la scheda magnetica ed entrarono prima di me, per sistemare sul pavimento i bagagli pesanti che mi ero portata dietro.

<Signorina, prego entri...> sorridente m'esortò uno di loro.

Esitai qualche secondo prima di avanzare. L'odore di fresco e di pulito, non mi diede l'impressione di una camera d'albergo, ma di casa ed invase le mie narici, avvolgendomi completamente.

Quando superai la soglia, la prima cosa che feci, fu quella di togliermi le scarpe. I miei piedi doloranti al contatto con la moquette morbida e calda si rilassarono e si distesero, dovevo sicuramente ricordarmi di buttare quelle scarpe, costose, sì, ma scomodissime.

Sentivo il richiamo di quel letto sistemato alla perfezione e, senza pensaci troppo, con le scarpe ancora tra le mani, mi buttai sulle lenzuola a peso morto . Alzai le braccia sopra la testa e cercai di stirarmi i muscoli e di sgranchire le ossa. Il viaggio mi aveva stremato, ma la seta delle lenzuola accarezzava la mia pelle e mi regalava una sensazione di beatitudine, che fino a quel momento non avevo mai provato.

Un sorrisetto si disegnò sulle mie labbra, alzai gli occhi e vidi la mia immagine riflessa sul soffitto, dov'erano incastonati degli specchi. Fissavo la mia figura esile. Le mie gambe scoperte quasi completamente, le curve del mio corpo, il collo sottile, il viso candido... Non sembravo neppure più io. Ero felice.

<Allora che fate così imbambolati, andate via!>

Quella voce minacciosa, mi fece ritornare alla realtà. Balzai sulle ginocchia e vidi lo schiavetto di Arthur, che accigliato cacciava dalla stanza i facchini che erano rimasti a godersi la scena.

A piedi nudi scesi dal letto, mi sciolsi i capelli raccolti nel morbido chignon, lasciandoli cadere lungo la schiena e lo raggiunsi.

<Tu-tto bene si-gnorina? Posso portar-le qual-cosa?>

Mi chiese balbettante, con un tono estremamente gentile, però invece di guardarmi negli occhi continuava a guardami le tette.

<Ramon, è così che ti chiami, giusto?>

Gli risposi con un'altra domanda, ero davvero infastidita da quelle occhiate da maniaco sessuale.

<Sì, signorina Leyla.> replicò lui, ancora con gli occhi piantati lì in mezzo con una faccia da ebete, che dovetti trattenermi dal ridere e non sembrare scortese.

<Senti Ramon, ma non ti piacciono i miei occhi?>

Lui con un sorrisetto banale mi guardò, poi rimase a fissarmi come se avesse avuto una visione celestiale e dopo un po' aprì la bocca per parlare.

<Oh sì, signorina. Ha degli occhi stupendi.>

<Ecco allora, da questo momento in poi cerca di guardarli quando mi parli, se vuoi mantenere intatti i tuoi gioielli di famiglia.>
Lo minacciai, ma dentro di me morivo dalla voglia di scoppiare in una delle mie risate rumorose ed imbarazzanti.

Mi guardò a bocca aperta senza riuscire a dire una parola. Forse ero stata davvero cattiva a prenderlo in giro in quel modo, ma proprio non riuscii a trattenermi e, così, ruppi quel silenzio imbarazzante ordinandogli di portarmi qualcosa da mangiare.

< ...gradrei un hamburger e delle patatine, con molto Ketchup e maionese...>

< Va bene, sarà fatto...> Replicò a testa bassa.
< AH!! Dimenticavo... anche una birra fredda, ghiacciata! Grazie...> continuai.

< Grazie?! Si figuri signorina, per lei questo ed altro!!> Si fermò sulla soglia e si girò. I suoi occhi quasi luccicarono e prima di uscire mi fece un occhiolino.

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