Capitolo 37.La piccola Trouble. Parte 1.

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*Alla fine credi, speri, che tutto andrà per il verso giusto.
Continui a camminare, lo fai velocemente senza esitare, mentre una vocina continua a consigliarti di girarti, di guardare la strada che hai percorso, di tornare indietro, perché la paura blocca una parte del tuo essere.
Ma tu sei lì che ti fai luce da sola, tu che brilli di luce propria illumini i tuoi passi.
E mentre pensi che forse sarebbe meglio dileguarsi come il fumo di una sigaretta, nell'aria scura e cupa della notte, i passi si fanno più veloci e lunghi ed in un attimo ritrovi la forza e la volontà di Vivere.
Quella volontà che credevi di aver perso negli occhi di chi senza volere ti ha spinto a correre.*

Mi svegliai quella notte con la testa pulsante ed il cuore pieno di angoscia.
Ricordavo solo gli ultimi momenti di quello che era successo qualche ora prima.
Il cuore mi batteva ancora forte per lo spavento, mi sentivo morire eppure ero ancora lì in quella stanza, a metà tra la vita e la morte, in agonia.
Il buio pesto mi faceva paura tanto da pietrificarmi, avrei voluto alzarmi ed accendere la luce, ma non riuscivo a muovere un muscolo.
Sentivo che qualche mostro sarebbe spuntato fuori, non da sotto al letto, ma da me stessa.
Era successo tante di quelle volte da quando ero lì che adesso era il mio riflesso a suscitarmi timore.
La testa era pesante e quel dolore martellante mi toglieva il respiro.
Se volevo uscire in fretta da quel posto dovevo smetterla di avere crisi e riassumere il controllo di me stessa.
Lentamente con tutte le mie forze cercai di tirarmi su.
Piantai i piedi sul pavimento e barcollando raggiunsi la porta sulla parete opposta.
Cercai l'interruttore della luce e lo trovai, pochi istanti dopo la stanza s'illuminò sotto la fioca lampadina gialla, appesa al centro del soffitto.
Quando tutto sembrò più chiaro davanti ai miei occhi mi calmai,  dovevo trovare le forze per chiamare aiuto.
Il dolore alla testa era lancinante e non capivo perché non c'era il dottor Sarter a farmi compagnia, lui non mi lasciava mai da sola dopo le mie crisi.
Mi avvicinai alle sbarre della porta di ferro battuto e gridai.
Un'infermiera corse subito in aiuto.
Una ragazza più o meno della mia età entrò, mi prese per un braccio e, nonostante il suo fisico esile,  sostenne tutto il mio peso e mi accompagnò nuovamente sul letto.
Prese dalla tasca del camice due pillole e me le mise tra le mani.
La guardai, i suoi occhi grandi e verdi m'incoraggiavano di prenderle.
Non volevo ritornare a dormire per giorni, ogni volta che accadeva avrei preferito  non svegliarmi più.
Gli incubi erano terribili ed ogni volta dovevo fare i conti col mio passato e cosa c'era di più terrificante dei miei vecchi ricordi?.
<Vedrai, il mal di testa scomparirà e ti aiuteranno a dormire.>
Disse dolcemente, mentre mi accarezzava i capelli lunghi sulle spalle.
Le inghiottii immediatamente, stavo quasi per svenire dal dolore.
Mi sdraiai sul letto e quando chiusi gli occhi mi ritrovai in un altro posto.

<Allora Leyla, devi ascoltarmi. Smettila di frignare e apri bene le orecchie...>
Quella donna davanti a me mi parlava con aria minacciosa.
Ero tornata indietro di almeno 16 anni, ricordavo quel momento come se fosse stato ieri.
<Sì mamma. Ti sento.>
Quella vocina bassa e mortificata era ancora rotta per il pianto.
Mi asciugai le lacrime coi palmi delle mani e con gli occhi spalancati fissai la giovane donna dai capelli rosso fuoco davanti a me, che si sistemava la gonna di pelle nera troppo corta, lasciando scoperte le gambe sottili e slanciate.
<Oggi devo lavorare, voglio che tu rimanga sulle scale senza dare fastidio. Non voglio che ti cacci nei guai, non voglio richiami dai vicini, non  voglio neppure sentirti respirare...>
Continuai a guardarla a bocca aperta, quella richiesta mi sembrò strana, priva di senso.
Come facevo a non respirare?
Se fosse esistito un modo per farlo senza danneggiare la mia vita non avrei esitato ad ubbidire.
<Ma come faccio se non respiro, mamma!>
Ricordavo benissimo come mi sentivo in quel momento. All'epoca non capivo da cosa dipendesse quella frustrazione.
Avevo paura di fare un torto a mia madre, così ogni volta trattenevo il respiro con la speranza che lei potesse lavorare tranquilla.
C'erano delle volte che lo facevo così intensamente che svenivo sulle scale per ore intere e mi risvegliavo quando uno dei vicini mi faceva rinvenire con una spruzzata di acqua sul viso.
<Stupida bambina. Quando ti dico che non voglio sentirti respirare significa che devi stare così buona da controllare i tuoi respiri. Questa volta se svieni sulle scale e mi fai chiamare dalla signora Brown al piano di sopra, ti ammazzo di botte!>
Il suono di quelle parole rimbombò nella mia testa, mi ricordai dell'ultima volta che ne avevo combinata delle mie. Instintivamente mi massaggiai la gamba dove mia madre mi aveva piantato con grande furia il suo stramaledetto tacco a spillo.
Ricordai persino il dolore di quel momento, chiusi e riaprii gli occhi per allontanare quelle immagini dalla mia testa.
<Farò attenzione, mamma. Te lo prometto.>
<Buon per te. Adesso prendi le tue cose e sparisci. Sta arrivando un cliente.>
Ai miei occhi mia madre appariva come la più bella di tutte le donne, ma non c'è mai stato un attimo delle mia vita in cui ho sperato di diventare come lei .
Per un periodo della mia vita iniziai a vestirmi da maschiaccio a tagliare i capelli e a comportarmi come tale  per cercare di non somigliarle.
Lei era sempre molto femminile ed elegante, gli uomini amavano farsi travolgere dal suo profumo e dalle sue carezze.
Era come una sirena che con la sua bellezza ammaliava chiunque e nel momento giusto li affondava per impadronirsi dei loro averi.
Era per questo motivo che passavo la maggior parte del mio tempo a sognare di diventare una persona diversa, volevo avere successo per qualcosa che sapessi fare, volevo distinguermi da tutte le altre, imparare a suonare e andare via da lei, dimenticarla, il più in fretta possibile.
Quando ero a scuola le monache mi lasciavano al piano, dicevano che il mio era un talento unico, secondo loro avevo una dote naturale. In effetti imparai a suonare tutte le note in poco tempo e dopo ero in grado di saper suonare qualsiasi cosa.
Io e la musica eravamo un tutt'uno,  ogni volta che posavo le mani sulla tastiera vecchia del piano in cappella, riuscivo ad allontanarmi anni luce dalla realtà penosa che vivevo e mi rifugiavo nel mio mondo incantato.

All'epoca non capivo che razza di lavoro facesse mia madre.
Incassava molti soldi in una giornata, tanti da garantirsi di pagare la retta della mia scuola privata.
Forse era un'imprenditrice, era questo che dicevo alle suore ogni volta che me lo domandavano.
Nella mia immaginazione mia madre girava il mondo per affari, conosceva molte persone famose.
I suoi clienti sembravano tutti dei grandi uomini importanti, ben vestiti e profumati.
Non sapevo precisamente di che tipo di affari si occupasse, una volta l'avevo sentita dire che regalava sogni.
Fin quando, poi, un giorno la verità mi fu buttata in faccia e capii.
Durante l'ultima ora di lezione a scuola Jess mi scrisse una frase sul banco:
"Cattivo sangue non mente..."
Non capii.
Quella bambina era arrabbiata semplicemente perché Karl Stevens aveva preferito sedersi vicino a me piuttosto che accanto a lei.
Andai da lei per cercare di capire che cosa volesse dire. A me non fregava un cazzo di Karl, poteva tenerselo. M'isolavo sempre a scuola, pensavo ai fatti miei senza parlare con nessuno.
<Avanti Trouble, è così che ti chiama la tua mammina vero?>
<Si, ma non capisco cosa centra...
Cosa vuoi Jess?>
<Ci hai mentito Leyla. Tua madre non fa l'imprenditrice, non gira il mondo per affari...>
<Ah no? E tu che ne sai?>
<Perché mia madre mi ha detto che la tua mammina è una prostituta, per questo riesce a mantenerti!>
Rimasi a bocca aperta a fissarla per qualche minuto, mentre tutti intorno a noi due, iniziarono a ridere.
Non sapevo nemmeno cosa significasse precisamente quella parola.
Per la prima volta in vita mia sentii delle scariche elettriche partire dal centro del cervello e distribuirsi per tutto il corpo.
Le mani iniziarono a prudermi e la rabbia repressa dentro di me esplose.
Afferrai i capelli rossicci di quella piccola vipera strisciante e la scaraventai a terra.
Mi ritrovai a cavalcioni su di lei e le afferrai un braccio con i denti.
Sentii il sapore amaro del suo sangue in bocca, stringevo così forte che avrei potuto staccarglielo.
La maestra corse in aiuto di Jess che gridava disperata e prima di riuscire a separarmi da lei, dovette colpirmi forte in faccia.
Lasciai la presa quando mi resi conto che dal mio naso grondava sangue che si univa a quello di Jess sulla mia bocca.
Rimasi di sasso con un sorrisetto sadico mentre guardavo la bambina dimenarsi dal dolore e la maestra disperata che gridava aiuto.
<Cosa hai combinato Leyla?!>
Iniziò a strattonarmi e io non le diedi alcuna risposta.
Mi alzò di peso e mi buttò fuori dall'aula, mi afferò per un braccio.
Mi stringeva così forte da farmi male, ma dalla mia bocca non uscì un lamento.
Nell'ufficio della madre superiora ricevetti la mia punizione:
Cinque bacchettate sulle mani e la sospensione senza obbligo di frequenza per 10 giorni.
<Laverai i pavimenti per 10 giorni.
Vergognati! Sei proprio un 'guaio'!>
"SEI PROPRIO UN GUAIO..."
Quella frase restò impressa nella mia mente. Non era la prima a dirmelo, mia madre me lo ripeteva ogni giorno come un mantra e così iniziai a crederci per davvero.
Iniziai a non dare più peso a quelle parole, volevo essere un guaio, speravo di esserlo per tutti.
Credo che fu in quel momento che nacque TROUBLE, fu in quel momento che mi resi conto di aver bisogno di crearmi una corazza indistruttibile, che nessuno avrebbe mai potuto scalfire.

Mi svegliai di soprassalto con lo stomaco in subbuglio.
Un conato di vomito mi risalì in gola e mi sentii disgustata e di cattivo umore.
Mi alzai dal letto velocemente per evitare di sporcare le lenzuola candide e rovesciai nel lavandino di fronte al letto.
Quel fluido era fetido e nauseante, aprii il rubinetto e mi sciaquai il viso, la bocca e.mi bagnai i capelli.
Mi appoggiai con le mani sul bordo del lavabo e guardai il mio riflesso allo specchio.
Avevo un aspetto terrorizzante, profonde fosse grigie circondavano i miei occhi e lunghi solchi segnavano le mie guance.
Ero dimagrita così tanto che i miei vestiti mi stavano larghi.
Diedi un'occhiata alla ferita poco più sopra della tempia sinistra, era un brutto taglio, ma nulla di irreparabile.
Quello fu un altro segno della mia sconfitta ed ogni giorno ero costretta a raccogliere i pezzi della mia armatura che si stava distruggendo poco per volta, lasciandomi vulnerabile.

La porta di ferro si aprì e quel suono mi costrinse ad abbandonare i miei pensieri.
Il dottor Sarter entrò e si sedette sul mio letto.
<Dobbiamo parlare Leyla.>
Non mi voltai a guardarlo, mi bastarono quelle parole per capire che era preoccupato e che io probabilmente ero nei guai.
<Dobbiamo parlare di Tack...>

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