CAPITOLO VENTUNO

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Sollevai a fatica la testa dalle ginocchia, la schiena e il collo indolenziti. Mi strofinai gli occhi con il dorso della mano e mi appoggiai poi allo stipite della porta per reggermi sulle gambe intorpidite.
Ricordavo bene l'ultima volta che avevo pianto, nonostante non ne andassi fiera. Era stato quella notte, quando tutto era cominciato, quando ero stata catapultata in quel mondo assurdo. Pensandoci adesso, il motivo per cui avevo versato quelle lacrime era così futile che mi venne quasi da ridere.
Ah, se fossi potuta tornare indietro nel tempo. Avrei mollato alla me stessa del passato un ceffone così forte da lasciarle lo stampo. Poi le avrei urlato di risparmiare quelle lacrime per quando ce ne fosse stato davvero bisogno, di non perdersi in un bicchiere di problemi inesistenti, di godersi quella sua semplice vita, finché ne aveva la possibilità.
Ma, d'altronde, se fossi potuta tornare indietro nel tempo, di sicuro niente di tutto questo sarebbe accaduto. Avrei fatto in modo di non farlo accadere.
E se ero una codarda, mi andava bene. Volevo esserlo. Volevo essere egoista, volevo fregarmene dei problemi e lasciare che fossero gli altri a risolverli, volevo chiudere la porta e rifugiarmi in una vita normale.
Ma i problemi, anche se non sei tu a cercarli, prima o poi ti trovano, e mio padre ne era la prova.
Aveva provato a nascondersi, a nascondere me, ma era stato tutto vano.
Ero ancora immersa nei miei pensieri quando, dalla cabina affianco a quella di James, giunse il cigolio di una porta che si apriva. Jazmine ne uscì in silenzio, richiudendosela piano alle spalle, tentando di fare il meno rumore possibile. Aveva i capelli in disordine e un'aria stanca ma guardinga. Indossava una stropicciata maglia bianca decisamente troppo grande sopra a dei pantaloncini corti, ed era a piedi nudi.
Alzò lo sguardo e incrociò il mio incuriosito.
Si bloccò immediatamente, arrossendo.
— Luna? — bisbigliò, sorridendo imbarazzata. — Cosa ci fai qui?
Inclinai la testa di lato. — Potrei farti la stessa domanda, Jaz.
Si avvicinò velocemente a me e mi prese per un braccio. — D'accordo, d'accordo. — borbottò. — Vieni. È ora di fare quella chiacchierata tra ragazze.
Mi spinse dentro la sua cabina, chiudendosi la porta alle spalle.
Non ci ero mai entrata, ma mi aspettavo qualcosa di scialbo ed essenziale come la mia, non qualcosa di completamente opposto.
Quando vidi l'interno, riuscii a stento ad trattenere un'esclamazione di sorpresa.
Non avevo idea di come fosse possibile, ma la sua stanza sembrava molto più grande della mia. Le pareti erano dipinte di viola, costellate da spruzzi di vernice blu e argentata, come se si fosse divertita a lanciare colore sui muri con un pennello. Il pavimento era cosparso da mucchi disordinati di libri di varie dimensioni e colori. Su un ripiano fissato alla parete, facevano bella mostra una serie di boccette contenenti misteriosi liquidi colorati.
Ma la parte migliore era la quarta parete, quella che avrebbe dovuto corrispondere al lato esterno della nave. Il motivo? Be'... non c'era. Almeno, quella fu la mia prima impressione.
Riuscivo a vedere la sfera rosso fuoco del sole che emergeva dalle acque di cristallo, il cielo che si tingeva delle sfumature aranciate dell'alba, le onde che accarezzavano i fianchi dell'Artemis. I primi raggi del giorno inondavano la stanza con la loro tenue luce dorata.
Sembrava di essere all'aperto, e di guardare il paesaggio dal ponte della nave. Nella stanza di Jazmine non percepivo quel senso di prigionia che sentivo invece nella mia, e lo trovai fantastico.
Trattenni il fiato. Quell'improvviso cambio di prospettiva mi aveva fatto girare la testa.
— Come...
Jazmine sorrise. — Oh, be'... — Scrollò le spalle. — Niente di tutto questo è reale... o, almeno, non lo era. Cavolo, è più facile farlo che spiegarlo. È una cosa che mi capita spesso, sai? Immagino le cose, e quando riapro gli occhi... — Schioccò le dita, e una piccola margherita le comparve in mano. — Come per magia, giusto? — ridacchiò.
Presi il piccolo fiore che mi porgeva e me lo rigirai tra le dita. — Quindi... questo non è reale?
— Reale, non reale... — Jaz fece scorrere i polpastrelli sulle pareti color porpora. — Non ho mai capito bene qual è la differenza. È reale quello che vediamo? Allora sì, questo è reale. Ma i nostri pensieri, le nostre emozioni? Quelle non sono reali? — Scosse la testa, guardandomi negli occhi. — A volte mi dicono che sono una semidea potente, che ho enormi poteri. Ma, in realtà, non ho più magia di qualunque mortale sia in grado di immaginare. Tutto ciò che faccio io è... permettere agli altri di vedere... — Mi prese la margherita dalle mani, e questa si dissolse tra le sue dita. — ...oppure no.
Osservai la polverina dorata che si disperdeva nell'aria. — È fantastico. — mormorai.
— Oh! — Jazmine fece un gesto con le mani, come per scacciare un insetto. — Scusami. L'ho rifatto, vero? Max mi dice sempre che faccio troppi discorsi filosofici, ma è più forte di me.
— Giusto, a proposito di Max... — iniziai.
Lei emise un gemito sommesso. — Senti, Luna...
Sollevai i palmi delle mani davanti a me. — Non voglio sapere nulla di quello che avete fatto, davvero!
Le sue guance si colorano di un'intensa sfumatura scarlatta. — Cos'abbiamo fat... Cosa?! No! Noi non... insomma, noi... — Prese un respiro profondo, gonfiando le guance. Tornò a guardarmi, di nuovo seria. — D'accordo. E tu? Va tutto bene?
— Uhm, sì. Tutto okay. Avevo solo bisogno di una boccata d'aria. — Accennai un sorriso tirato.
Jaz mi scrutò in viso. Incrociò le braccia al petto. — Forse l'ho già detto, una volta, ma sono una figlia di Ecate. Riconosco gli inganni e le bugie. Luna, non devi raccontarmi tutto per forza. Ma...
Sospirai. — Oh, va bene. Penso di aver scoperto chi ha catturato Artemide. Ho fatto... un sogno.
Jazmine spalancò leggermente gli occhi a mandorla, ma non disse niente, limitandosi ad ascoltare, attenta.
Le raccontai brevemente il sogno, tralasciando solo l'ultima frase che Orione aveva pronunciato prima di svanire.
Sacrificherai davvero le vite dei tuoi amici per una dea che non hai mai conosciuto?
Scossi leggermente la testa, come se così facendo fossi riuscita a scacciare tutti quei pensieri che vorticavano nella mia mente.
Ma niente da fare. Le parole di Orione rimanevano lì, come le radici un'erbaccia che si rifiutava di farsi estirpare.
— Orione, eh? Ma certo. —  Jazmine si passò una mano sul volto e si lasciò sprofondare sul letto a baldacchino, scomparendo dietro le sottili tende viola. Anche quello era sicuramente frutto della sua magia. Doveva averne proprio molta, di immaginazione.
— Avrei dovuto immaginarlo. —  sbuffò.
Si rizzò a sedere di scatto, la frangia sugli occhi, e raccolse un volume da terra. Era rilegato in cuoio scuro, e aveva come unica decorazione una piccola luna calante argentata impressa sul dorso.
— Avevo letto qualcosa, da qualche parte... — Iniziò a sfogliare con foga le pagine ingiallite.
Mi sedetti di fianco a lei e lanciai un'occhiata.
— Mh? — esclamai, sorpresa. — Sai leggere il greco antico?
Lei annuì distrattamente, senza togliere lo sguardo dal libro. — Certo. È delle prime cose che si insegnano ai semidei appena arrivano al Campo. Il nostro cervello è già impostato per leggere il greco antico, ma ci mettiamo comunque un po' per impararlo effettivamente. — Si fermò, picchiettando con un'unghia smaltata di nero sulle pagine. — Ah, ma tu non hai avuto tempo, vero?
Scossi la testa.
— Eh, già. In effetti, sei dovuta subito partire per un'impresa. — riflettè —   Sai, Chirone l'avrebbe impedito, se fosse stato per lui: dopotutto, nonostante tu abbia lodevoli capacità col tiro con l'arco, sei ancora inesperta... ma quando l'Oracolo emana una profezia... — sospiró non possiamo fare nulla. Dobbiamo seguirla e basta. È questo il compito di noi semidei. — Lo disse con lo stesso tono con cui avrebbe potuto dirlo un animale da macello. Poi si riscosse, rendendosi conto che la stavo fissando, e mi sorrise di nuovo. — Comunque, quando torneremo al Campo, posso darti una mano, se ti va.
Ricambiai il suo sorriso, ringraziandola. Ma non riuscii a fare a meno di pensare: "Se torneremo al Campo."
Come faceva a essere così positiva?
— Ah! Eccolo. Orione. — Jazmine fece scorrere il dito sulla pagina.
Guardai anch'io, anche se non nutrivo speranze di capirci qualcosa. Faticavo a leggere persino l'inglese o l'italiano, figuriamoci il greco antico.
Invece, appena vi posai lo sguardo, le lettere del titolo iniziarono a muoversi da sole, un po' come mi capitava sempre quando cercavo di leggere qualcosa. Questa volta, però, invece di disordinarsi, rotearono fino ad assumere un significato: "Il mito di Orione", recitava la didascalia.
Deglutii quasi impercettibilmente.
Il ricordo dei suoi occhi scuri e spenti come la morte era ancora vivido nella mia mente.
— Orione — lesse Jazmine, saltando alle parti salienti del testo — Era un abile cacciatore, tanto abile da diventare l'unico che riuscì mai a guadagnarsi la fiducia della dea. Iniziarono a uscire insieme a caccia, e Orione divenne sempre più vicino alla dea vergine. Più di quanto non avesse mai osato fare nessun altro, nemmeno le fedeli Cacciatrici. Quella fu la prima e ultima volta che la dea Artemide si innamorò di un uomo.
Jazmine si fermò, esitante. Sapevo che si stava sforzando di non cercare il mio sguardo, ma io mi limitai a fissare le pagine ingiallite.
Non avrei più permesso a nessuno di leggere ciò che provavo, mi dissi all'improvviso. Sarei diventata più forte. Le emozioni mi facevano sentire debole, e lo odiavo.
Avrei ritrovato la me stessa del passato, quella me stessa pronta a difendere con le frecce le mura del suo cuore, e l'avrei migliorata.
Avrei provato a diventare come Alyx.

𝕷𝖆 𝕱𝖎𝖌𝖑𝖎𝖆 𝕻𝖗𝖔𝖎𝖇𝖎𝖙𝖆Where stories live. Discover now