CAPITOLO DODICI

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Mi svegliai urlando nella mia brandina, nella capanna numero undici.
Restai con gli occhi chiusi per qualche secondo, cercando di controllare il respiro e di calmare i battiti del mio cuore.
Inspira.
Espira.
Era soltanto un sogno.
Inspira.
Solo un sogno.
Espira.
Solo. Un. Sogno.
Schiusi gli occhi.
Fasci di una fioca luce dorata filtravano all'interno della stanza e accarezzavano ogni cosa con il loro soffuso bagliore.
Mi misi lentamente a sedere.
I figli di Ermes dormivano ancora, non si erano accorti di nulla. Dovevano avere il sonno pesante, probabilmente ieri il falò era durato fino a tardi.
Nella mia mente continuavano a succedersi le immagini del sogno.
Kira Wolfson...
Figlia di Artemide...
Il Diadema d'Argento...
E quella frase, l'ultima frase pronunciata dalla ragazza.
Lei non fallirà...
Lei non fallirà...
Lei non fallirà...
Non riuscivo a smettere di risentire quelle parole, rimbombavano nella mia testa, ancora, e ancora.
Mi massaggiai le tempie, che pulsavano dolorosamente.
Finalmente riuscii a mettermi in piedi, barcollando leggermente. Mi sentivo ancora più stanca di quando ero andata a dormire, ma non avevo alcuna intenzione di rimettermi a letto.
Mi cambiai senza dovermi preoccupare che gli altri mi vedessero, tanto dormivano tutti. Indossai una canottiera arancione con lo stemma del campo e un paio di pantaloni a motivo militare che mi arrivavano al ginocchio. Sciolsi la coda spettinata e spazzolai i capelli alla bell'e meglio. Infilai gli anfibi neri e mi inginocchiai per prendere l'arco che tenevo sotto alla brandina.
Nell'istante in cui i raggi dell'alba si riflessero sulla sua superfice luccicante, rividi lo stesso arco riflettere i raggi di luna, in un'altra occasione, con un'altra propietaria. E le immagini del sogno tornarono a sovrapporsi nella mia mente.
La ragazza che correva, i capelli fluenti che svolazzavano al chiaro di luna, un arco, quell'arco, stretto in mano. Le frecce argentate che colpivano i lupi, liquefacendoli in pozze d'ombra. Il lupo che balzava sulla ragazza, i suoi artigli che le dilaniavano il fianco. L'arco che giaceva a terra, macchiato di sangue, accanto al braccio inerme della sua padrona, mentre gli artigli dell'uomo-lupo scendevano verso la sua gola.
Il metallo liscio e freddo mi scivolò dalle mani sudate e l'arco colpì il pavimento con un tonfo. Con un sussulto tornai alla realtà.
Mi guardai intorno, sperando di non aver svegliato nessuno. La ragazza che aveva il letto accanto a me, Julia Markowitz mi pareva si chiamasse, si girò dall'altra parte con un mugolio sommesso, ma tenne gli occhi chiusi.
Sospirai, e senza aspettare ancora, infilai arco e faretra a tracolla e uscii nell'aria frizzante del primo mattino, alla luce dorata dell'alba.

Ficcai le mani nelle tasche dei pantaloni. Non sapevo dove stavo andando, i miei piedi sembravano andare per conto loro, senza aspettare gli ordini del cervello. Ma, dopotutto, forse il mio cervello era troppo confuso per potersi anche mettere a dare ordini ai piedi. Il vento fresco attenuò il mio mal di testa. Cercai di concentrarmi, ma c'erano troppe cose che non quadravano.
Tanto per cominciare, Licaone aveva definito la ragazza bionda, il cui nome sembrava essere Kira Wolfson, "figlia di Artemide". Ero piuttosto sicura che Artemide non potesse avere figli, a causa di un giuramento: era una dea vergine. Come poteva allora avere una figlia?
Poi, quella ragazza aveva il mio stesso cognome, anche se io non la conoscevo. Avrebbe benissimo potuto trattarsi di una coincidenza, ma restava comunque strano.
Senza contare quel... cos'era? Un diadema, forse, quello di cui aveva parlato Licaone. E della resurrezione di giganti e titani e della distruzione dell'Olimpo e...
Accidenti,non ci capivo più niente.
Calciai con il piede una pietra sulla stradina, e la osservai rotolare fino a fermarsi un mezzo al prato. Alzai lo sguardo e vidi che ero all'arena di tiro con l'arco. Bene...
A volte sembrava davvero che i miei piedi fossero più intelligenti del mio cervello.
Lentamente, senza fretta, a posizionarmi di fronte a un bersaglio. Presi l'arco in mano e incoccai una freccia.
Rimasi ferma qualche secondo, mentre le scene del sogno ricominciavano a susseguirsi nella mia testa. Non le scacciai, questa volta.
Ormai ne ero convinta. Quel sogno era reale. L'arco era davvero lo stesso. E questo voleva dire che la ragazza era quella di cui mi aveva raccontato James.
Una folata di vento mi scompigliò i capelli e una ciocca scura mi volò davanti agli occhi. Inspirai a pieni polmoni l'aria mattutina. C'era un lieve aroma di fragole, misto a quello dell'erba bagnata di rugiada.
Mi sistemai i capelli dietro le orecchie e puntai l'arco contro il bersaglio.
Inspira.
Il mondo intorno a me si isolò, come accadeva sempre. Non c'era più il canto degli uccellini, lo scrosciare del ruscello in lontananza, il leggero frusciare delle foglie al vento.
Esisteva solo il bersaglio, e la freccia puntata contro di esso.
Espira.
Socchiusi un occhio per prendere meglio la mira, puntai la freccia contro il centro del bersaglio.
Inspira.
Tesi la corda.
Riuscivo a registrare ogni movimento, come al rallentatore.
Sentii un rivolo di sudore freddo corrermi lungo il collo.
Espira.
La freccia partì.
Sbattei le palpebre.
La vidi conficcarsi nel fianco del lupo.
Il mio cuore mancò un battito, il respiro divenne affannoso, sentii i miei piedi arretrare di un passo.
Sbattei di nuovo le palpebre, e mi sembrò di uscire da uno stato di trance, di risalire in superficie dopo essere stata per molto tempo sott'acqua.
La freccia era infilzata nel terzo cerchio dal centro. In pratica, avevo mancato il mio bersaglio.
Mi resi conto di aver lasciato cadere l'arco, che ora giaceva per terra, come nel mio sogno.
Basta! Non ce la facevo più. Perché quell'incubo continuava ad assillarmi?
Raccolsi l'arco, ignorando il tremito convulso delle mie mani. Incoccai con furia una seconda freccia e puntai. Feci un respiro profondo, cercando di calmarmi, ma non servì a nulla.
Non riuscivo a smettere di rivedere gli artigli dell'uomo-lupo che scendevano verso la gola della ragazza.
Le immagini del sogno si sovrapponevano a quelle reali, rendendole sfocate, difficili da distinguere con le altre.
Tunk.
Quarto cerchio dal centro.
Presi un'altra freccia, senza nemmeno badare a cosa stessi facendo.
Quella ragazza era morta. Era stata uccisa. Era morta.
La mia mano tremò, faticando a puntare l'arco.
Quello che avevo visto era accaduto davvero. Ma la domanda era: perché l'avevo visto?
Tunk.
Linea tra il terzo e il quarto cerchio dal centro.
Presi un'altra freccia. Ormai non pensavo più, il mio braccio andava in automatico dalla faretra all'arco, spinto dall'istinto di continuare finché non avessi colpito il centro.
Addio, figlia di Artemide.
Continuava a risuonarmi nella testa quell'orribile voce ringhiante.
E quella frase, che aveva pronunciato la ragazza prima di morire.
Lei non fallirà.
A chi si riferiva?
Non riuscivo a concentrarmi, non riuscivo a mirare. Non mi era mai successo prima.
Una lacrima di frustrazione mi scese lungo la guancia e cadde sulla mano che tirava la corda.
Cercai di calmarmi, riprovai a puntare la freccia contro il bersaglio, ma non ci riuscivo.
Poi, due mani calde si posarono sulle mie, e le spostarono delicatamente nella giusta direzione.
Il tremito scomparve, la mente parve schiarirsi. L'incubo svanì e la realtà tornò a mettersi a fuoco.
Tunk.
La freccia colpì il centro del bersaglio.

𝕷𝖆 𝕱𝖎𝖌𝖑𝖎𝖆 𝕻𝖗𝖔𝖎𝖇𝖎𝖙𝖆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora