CAPITOLO DUE

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Il mio nome è Luna Wolfson e quando tutto è iniziato avevo ancora quindici anni.
Il mio cognome, americano nonostante vivessi in Italia, era dovuto alla nazionalità di mio padre. In genere a casa parlavamo inglese, mentre l'italiano era per me una seconda lingua.
Frequentavo una piccola scuola, al centro di quel paesino in campagna circondato dai boschi. Vivevo, con mio padre, proprio al confine tra la civiltà e la foresta. Il confine tra la mia casa e un mondo sconosciuto.
Sì, perché i boschi erano da sempre la mia casa molto più di quella costruzione di mattoni che assumeva quel nome solo per convenzione.
E questo a mio padre non andava molto a genio.
Penso che fossi la classica ragazza "problematica". Dislessica. Iperattiva. Assolutamente asociale. Perennemente fra gli ultimi della classe. I commenti degli insegnanti ai colloqui con mio padre erano sempre gli stessi: "La ragazza è molto intelligente, ma non si applica." o "Non ha voglia di studiare."
C'erano quelli convinti che i miei "problemi" fossero dovuti alla scomparsa di mia madre.
Non era così, naturalmente; quando mia madre ci aveva abbandonati ero molto piccola. L'unica cosa che mi era rimasta di lei erano l'arco e le frecce. Ah, e anche i commenti dei vicini su di lei, come: "Quella donna non era degna di essere madre, come ha potuto abbandonare la figlia e il marito!". E cose del genere.
Io, però, non me la ricordavo nemmeno; sapevo solo che in seguito alla sua scomparsa, ci eravamo trasferiti in Italia, il più lontano possibile dal luogo d'incontro dei miei genitori, e qui mio padre aveva trovato un lavoro, una casa, una nuova vita.
Non come me, che non ero mai riuscita a sentirmi veramente a mio agio, né a casa, né con gli altri.
Comunque sia, non puoi sentire la mancanza di chi non ricordi neanche.
Non avevo mai capito perché mia madre fosse scomparsa così. Ogni volta che provavo a parlarne con mio padre, lui cominciava ad alterarsi e diventava intrattabile.
Diceva che le assomigliavo troppo; non era un complimento.
Anche a mia madre piaceva rifugiarsi nel bosco con il suo arco, questa è l'unica cosa che mi raccontò mai su di lei.
Forse era per questo che non era contento quando andavo nei boschi e ci restavo anche per intere giornate: aveva paura che diventassi come mia madre.
Aveva paura che lo abbandonassi come aveva fatto lei.
Pensandoci meglio, in realtà questo era un po' contraddittorio: mio padre non era contento di me, non avrebbe voluto una figlia così.
E questo non lo dicevo io, no. Me l'aveva detto lui. Me l'aveva detto col tono di uno che constatata l'ovvio, con i suoi occhi carichi di delusione. Avevo ormai smesso di sperare di vederci altro, mentre mi guardava. Avevo smesso di sperare di sentire dei complimenti uscire dalle sue labbra. Avevo smesso di sperare di essere amata.
Ma non avevo mai smesso di soffrire per questo. Nonostante la muraglia di pietra che mi ero costruita attorno anno dopo anno, nonostante le frecce scagliate contro un albero nel tentativo di preservarla intatta.
L'interno era debole, odiosamente debole, e la cosa peggiore era che non potevo farci nulla.
La parte divertente era sentire gli altri genitori lamentarsi del fatto che i propri figli passassero troppo tempo davanti al telefono, o al computer, o alla televisione. Mio padre avrebbe dato qualsiasi cosa pur di potersi lamentare di me per cose del genere.
Eppure, nonostante tutti i suoi sforzi, io non ero cambiata. Non ero diventata come gli altri, e lui era condannato a essere il padre di quella diversa.
Mentre io continuavo imperterrita a difendere le mie mura.

𝕷𝖆 𝕱𝖎𝖌𝖑𝖎𝖆 𝕻𝖗𝖔𝖎𝖇𝖎𝖙𝖆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora