CAPITOLO SEDICI

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— Perché non possiamo semplicemente prendere il primo volo per la Grecia? — chiesi.
Era un placido pomeriggio di inizio estate e gli unici suoni che rompevano il silenzio erano il morbido fruscio delle foglie mosse da una tiepida brezza leggera nel bosco in lontananza, il richiamo di un uccello, a tratti la voce di uno dei pochi semidei riusciti a sconfiggere la pigrizia e ad andare ad allenarsi, invece di assopirsi all'ombra di un albero.
Il sole, basso nel cielo, colorava di una brillante tinta dorata l'acqua delle calme onde che lambivano la costa.
Il grande vascello di legno se ne stava ormeggiato al molo, ondeggiando dolcemente sull'acqua, le grandi vele bianche che filtravano i raggi del sole. Una fila di scudi scintillava lungo i fianchi, mentre a prua la polena dalle sembianze di una donna sembrava osservare l'oceano in lontananza, come se fosse ansiosa di partire per la missione. Di sicuro, in ogni caso, lo era più di me.
— Sei stata riconosciuta, giusto? Quindi ora tutti sanno che sei la figlia della dea Artemide. — rispose Chirone senza distogliere lo sguardo dall'orizzonte — E per “tutti”, si intende anche gli dei. Artemide ha fatto un patto. Tu sei la prova che questo patto è stato infranto... e infrangere i patti non è mai una buona cosa, neanche fra gli dei. A rompere il giuramento, in realtà, è stata appunto Artemide ma... — esitò, come se temesse di ferirmi. — sai com'è, figliola, è una dea immortale e non può essere punita, così le sue colpe...
— Si riflettono su di me. Capito.
Ero stata riconosciuta da neanche un paio di giorni e già cominciavo ad odiare la parte divina che era in me.
Ripensai alla notte passata, la prima che avevo trascorso nella cabina di Artemide. Non era mai accaduto prima che qualcuno che non appartenesse  alle Cacciatrici passasse la notte nella cabina dedicata alla dea. Ripensai agli sguardi colmi di odio che mi avevano lanciato le Cacciatrici, al punto da spingermi a rinunciare a cercare un letto libero e a stendermi su uno dei divani davanti al caminetto acceso.
Dopo avermi fatto quella proposta, fuori dalla Casa Grande, Alyx non mi aveva più rivolto la parola. Si era limitata a fissarmi, tutto il tempo, in un modo al contempo irritante e inquietante che in realtà rispecchiava perfettamente il suo carattere abituale, con quel suo sguardo che sembrava penetrarti dentro e scrutarti le interiora.
Non avevo cenato, nonostante le repliche di James e gli altri; troppi sguardi fugaci, troppe occhiate curiose. Non lo sopportavo. Se c'era una cosa che odiavo davvero, oltre agli spazi chiusi, era essere al centro dell'attenzione.
Alla partita di Caccia alla Bandiera, ero rimasta in disparte, sentendomi sempre come se fossi chiusa in una bolla d'aria che mi separava dalla realtà.
E poi c'era stata la notte.
Nella cabina otto, il brusio di voci, come il ronzio di api infuriate, si era insinuato nella mia mente, cominciando a roteare senza alcun senso logico assieme agli pensieri che già l'affollavano. Non era cessato finché le palpebre non mi si erano chiuse sull'immagine delle fiamme che danzavano nel focolare, lo sguardo di Alyx, lo sentivo, ancora puntato su di me.
Serrai le labbra.
Chirone intanto aveva ripreso a parlare, con la sua solita voce profonda e calma. — Insomma, dal momento che il cielo è il territorio di Zeus, che è anche il padre di Artemide e quindi particolarmente legato alla causa...
— Aspetti, quindi è mio nonno... Mi sta dicendo che dovrei avere paura di mio nonno?
— È sempre meglio avere timore degli dei potenti come il Signore dell'Olimpo. — disse il centauro — E in ogni caso la tua è... una situazione speciale; non sarebbe prudente attraversare i suoi territori.
— E che mi dice del mare? Non è il territorio di... di... Poseidone?
— Diciamo che il dio dei mari preferisce disinteressarsi delle faccende degli altri dei. Inoltre il nostro Percy gli ha fatto promettere di non crearvi problemi.
Aprii la bocca per ribattere qualcosa; non sapevo cosa, sapevo solo che avevo bisogno di buttare fuori qualcuno dei pensieri che mi invadevano la mentre, ma in quel momento una voce proveniente dal vascello mi interruppe.
Leo Valdez, il figlio di Efesto, si affacciò al parapetto, il viso sporco di olio per motori e i riccioli persino più scompigliati del solito, sventolando allegramente una chiave inglese.
— Ehi gente! Se volete è pronta a salpare, tipo... anche adesso. Non vola, ma non è così male. — diede una pacca allo scorrimano e lasciò scivolare la mano sul legno lucido mentre si dirigeva verso le scalette. —  Signore e signori, date il benvenuto alla Artemis! — mi fece un sorrisetto sghembo, e ammiccò nella mia direzione. Io ricambiai con un'amichevole occhiataccia.
— In ogni caso, — continuò Leo — se avrete bisogno di qualcosa, la polena funziona anche da navigatore e da guida. Mi piace definirla un po' come l'anima, lo spirito della nave. Saluta, Milly!
La donna di legno ruotò la testa nella nostra direzione, e fece un sorriso. Ormai nemmeno questo poteva più stupirmi, ma non ero comunque troppo rassicurata dal fatto che saremmo potuti dipendere da una donna di legno. Senza offesa per Milly, naturalmente.
— Bene! — Leo si stiracchiò, emettendo uno sbadiglio — Sono lieto di esservi stato di aiuto e lo stesso i miei fratelli eccetera eccetera. — Con un balzo, atterrò sulla terraferma e si esibì in un piccolo inchino. — Ma ora, se non vi dispiace, dovrei proprio andare. Buona missione, comunque! — Si portò due dita alla fronte e le allontanò in segno di saluto, ammiccando di nuovo. — Ci si rivede! — Esitò, poi scrollò le spalle. — O almeno spero...
Detto questo, il figlio di Efesto ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni militari e si allontanò fischiettando un motivetto.
Fece un cenno col capo in direzione di  James, Jazmine e Max, che si stavano dirigendo in quel momento verso di noi sul pontile di legno. Il figlio di Ares aveva un grosso zaino caricato sulle spalle, mentre la figlia di Ecate si stava sistemando una borsetta di tela a tracolla.
— Perfetto! Io sono pronta per partire. — esclamò.
— Cosa? Come sarebbe a dire? — sbottai io, sorpresa.
Jazmine lanciò un'occhiata alla borsa, confusa. — Sì, be'... lo so che sembra poco, ma le ho fatto una magia che... insomma, è molto più grande di quello che sembra...
— No, io non... — Sospirai. — Non mi riferivo a quello.
— Oh. — Le guance della figlia di Ecate si imporporarono leggermente.
James scoppiò in una fragorosa risata. — Pensavi davvero che ti avremmo lasciata andare da sola, eh Wolfson? — Si avvicinò a me, e mi scostò con dita delicate una ciocca scura di capelli, per sistemarla dietro l'orecchio. Negli occhi aveva un'espressione decisa e tremendamente seria. Parlò sottovoce, in modo che gli altri non sentissero:— Io non potrei mai farlo...
La sua mano esitò a mezz'aria, poi lui la abbassò, stringendo forte il pugno, ma senza smettere di fissarmi negli occhi.
La vicinanza con il suo corpo mi aveva creato un peso in fondo al petto che mi bloccava il respiro.
Feci un passo indietro, scuotendo la testa.
— Ma... io... io non voglio mettervi in pericolo. — spostai lo sguardo sulle mani, torcendo nervosamente le dita tra di loro.
Con uno scatto, James mi afferrò il braccio. Io trasalii. — Luna, ascolta. Qualcuno dovrà pur mettersi in pericolo. Non puoi andare da sola. Cinque i semidei che partiranno, hai presente?
— Quattro quelli che torneranno. —  ribattei in un soffio, incrociare il suo sguardo.
— Luna. — La sua voce era melodica, il suo tono morbido come seta, la sua espressione più determinata che mai. — Te lo ripeto. Qualcuno dovrà mettersi in pericolo. E anche se non saremo noi, sarà qualcun'altro.
— Perché ci tenete così tanto? — sbottai.
Jazmine si avvicinò, rompendo quella cupola invisibile che si creava ogni volta che parlavo con James.
Sorrise, un sorriso dolce, e mi posò una mano sulla spalla.
— Perché è questo che fanno gli amici. Se uno di loro vuole proprio suicidarsi, be'... allora lo fanno tutti insieme.
Amici.
Una parola così semplice, eppure con un significato così grande.
Una parola usata così spesso senza pensare.
Una parola capace di farti volare come un palloncino...
— Wow, quanto affetto nell'aria... volete un abbraccio di gruppo? Io non mi unisco, sappiatelo.
Eccola, Alyx Knight, in tenuta da Cacciatrice aderente, i capelli argentati raccolti in una coda alta su cui luccicava il cerchietto con la mezzaluna, faretra e arco a tracolla, arrivata al momento giusto per bucare il palloncino con uno spillo.
Jazmine si voltò a guardarla con un'espressione disgustata, come se avesse appena visto uno scarafaggio.
— Cosa vuole ancora, la Cacciatrice?
— Oh, nulla, figlia di Ecate. Mi unisco all'impresa.
— Cosa?! — Jaz ci guardò stupefatta ad uno ad uno, come se si aspettasse che qualcuno dissentisse e la cacciasse via.
Nessuno aprì bocca. Max scrollò le spalle.
— Ottimo, allora. — proferì Chirone. Era stato in silenzio così a lungo che, se non fosse stato per metà stallone bianco, mi sarei dimenticata della sua presenza. — Se la squadra è formata, direi che potete partire. Sarebbe preferibile non perdere tempo, per cui avete un'ora di tempo prima di salpare.
— Cosa? No! Avete sul serio intenzione di portare anche lei? — protestò Jazmine — Nasconde qualcosa, ve l'ho già detto!
Ma io non ascoltavo più. Mi ero liberata dalla stretta di James, che mi guardò sorpreso mentre mi dirigevo a passi decisi verso Alyx e le facevo segno di seguirmi. Lei obbedì, gli angoli delle labbra piegati all'insù in un leggero sorrisetto ironico che mi fece scattare i nervi già tesi.
All'ombra di una quercia nel boschetto, fuori portata di orecchio, mi decisi a parlare.
— Io ho rispettato la mia parte dell'accordo. Ora tocca a te. Avevi detto che mi avresti dato delle risposte se io ti avessi lasciata partecipare alla missione.
— Mi ricordo, tranquilla.
— Quindi? — feci, impaziente — Alla Casa Grande, ieri, mi hai detto che la capacità di trasformarsi in animali selvatici non deriva dal fatto che sono figlia di Artemide. E allora perché? Come ho fatto a trasformarmi?
Invece di rispondere, Alyx allungò una mano verso il mio collo e prese fra le dita il ciondolo a forma di mezzaluna. Nell' istante in cui i suoi polpastrelli lo toccarano avvertii un calore intenso e quasi doloroso, come elettricità statica, diramarsi dal medaglione d'argento e risalire su per la catenina che lo reggeva.
Indietreggiai istintivamente, e lei lo lasciò andare. Mi rimbalzò sul petto, freddo contro la pelle lasciata scoperta dalla maglietta arancione.
— Dove hai preso quel ciondolo, Luna? — chiese, ma nella sua voce non c'era curiosità; ricordava più il tono di voce che adottavano gli insegnanti alle interrogazioni.
— Ce l'ho da sempre, credo. Mio padre mi disse che me lo aveva lasciato... — esitai, perché mi ero appena resa conto di una cosa.
— Te lo aveva lasciato chi? — insistette Alyx, l'impazienza nella voce.
— Mia madre... — mormorai.
Dall'espressione soddisfatta del suo viso, capii di aver detto esattamente ciò che si aspettava.
— Mai sentito parlare del Diadema d'Argento? — chiese, scrutandomi dritta negli occhi con quei suoi spicchi d'ambra ramati di fili d'oro.
All'improvviso, i ricordi mi vorticarono davanti agli occhi in un turbine di immagini.
Una foresta. La ragazza che correva. I capelli di ossidiana che si fondevano nell'oscurità. Il luccichio dei suoi occhi d'ambra nel buio, così simili a quelli che mi fissavano ora. Gli artigli dell'uomo-lupo verso la sua gola. La voce ringhiante che reclamava lo stesso oggetto di cui ora mi parlava Alyx...
— No. — risposi. Non ero certa nemmeno io del perché stessi mentendo. Forse non mi fidavo ancora del tutto di lei.
— Non me ne stupisco. — commentò. — Nemmeno gli Antichi Greci ne erano a conoscenza; la sua esistenza è totalmente sconosciuta all'umanità, Cacciatrici comprese.
— Esclusa te.
— Esclusa me. — confermò con un accenno di fierezza nella voce.
— E come mai?
— Il Diadema racchiude i poteri della dea Artemide; — continuò Alyx ignorando spudoratamente la mia domanda. — chiunque lo possieda, acquisisce le stesse capacità caratteristiche della dea: una straordinaria abilità nel tiro con l'arco, scaltrezza e agilità inimmaginabili... e il potere di trasformarsi in animali selvatici, simboli di libertà.
— Okay, d'accordo... fantastico, davvero. Ma perché me ne parli? Insomma, questo diadema... ce l'avrà Artemide, no?
— No.
— Ah. — Esitai. — E allora dov'è?
Il suo sguardo si posò sulla piccola mezzaluna d'argento che mi oscillava al collo. — Più vicino di quanto pensi.
Seguii il suo sguardo, in silenzio.
Presi la collana fra le mani.
Per tutto questo tempo, per tutti questi anni, hai sempre avuto con me la prova della tua discendenza, sussurrò una vocina alla mia mente. È sempre stata con te, alla fine, anche se credevi che tua madre ti avesse abbandonato.
Chiusi le dita una ad una attorno la superficie d'argento, tiepida sotto la mia pelle.
Un oggetto così potente... e tu non me n'eri mai accorta...                                                                     Diedi un forte strattone alla collana, ignorando la lieve fitta di dolore che mi provocò la catenina conficcandosi nella pelle del collo. 
Volevo strapparmela di dosso, scagliarla il più lontano possibile da me. 
Non mi importava se era un amuleto potente, non mi importava se era un dono di mia madre, non mi importava se ci sarebbero potute essere delle conseguenze.
Ma una presa salda si chiuse sul mio polso.
Alzai lo sguardo sui suoi occhi.
Così simili ai miei, eppure così diversi, con quella calma apatica, quella superficie levigata che nascondeva chissà quali segreti; io facevo schifo a nascondere segreti, quando si trattava di sguardi.
— Non lo voglio! — Tentai inutilmente di sfuggire alla presa di Alyx. — Non voglio questo potere! — sentivo le lacrime pizzicarmi fastidiosamente all'interno degli occhi; lacrime di rabbia, lacrime di frustrazione. Le ricacciai indietro. — Non lo voglio... — ripetei in un sussurro.
— Non serve a niente fare tutta questa scena. — La sua pacatezza mi faceva innervosire.
— Si può sapere che stai dicendo? — quasi urlai.
— Ormai fa parte di te.
Smisi di tentare di divincolare il polso dalla sua morsa ferrea, che si sciolse non appena lo feci.
— In che senso?
— Anche se te lo togliessi, ormai il suo potere circola nelle tue vene assieme al tuo sangue. Dimmi, Luna, perché Artemide non può avere figli?
Risposi esitante, senza capire il perché della sua domanda:— Perché... odia gli uomini? Perché è una delle dee vergini?
— Naturalmente, questo è il motivo più comunemente conosciuto — concesse Alyx — Ma quello che pochi, anzi, oserei dire nessuno, sa è l'altro movente: i figli della dea Artemide, compiuti i sedici anni, avrebbero ereditato i poteri del Diadema d'Argento, diventando così molto, troppo potenti.
— Non mi sento molto potente. — affermai.
Per un istante, mi parve che le labbra di Alyx avessero un guizzo simile a un sorriso divertito, ma scomparve così velocemente che pensai di essermelo immaginato. — Immagino sia normale, le prime volte. — disse — Naturalmente, il tuo corpo da umano non è del tutto adatto a sopportare un tale potere per una grande quantità di tempo, dal momento che richiede molta energia, ma andando avanti sarai in grado di sostenerlo sempre più a lungo.
— Aspetta... ma tu lo sapevi! — puntai un dito accusatore contro il suo petto, mentre sentivo un fiore infuocato di rabbia sbocciare dentro al petto. — Tu eri già a conoscenza di tutto questo! Non potevi dirmelo prima? Non potevi lasciare a me la scelta? — Lasciai che una parte della mia mente si allontanasse, catturando immagini di lupi che balzano sulla lepre, leonesse che flettono il loro corpo mentre si lanciano sulla gazzella. — Sono stufa! Sono stufa che scelgano sempre gli altri per me! — I sensi si stavano facendo più acuti; ora se avessi voluto avrei potuto carpire ogni singola parola dei semidei nel campetto di pallavolo, ogni singola foglia che frusciava al vento, ogni singolo rametto che si spezzava nel sottobosco. Ma non era quello che mi importava. — Non ho scelto io di essere figlia di Artemide, non ho scelto io di ricevere questo “potentissimo dono”, non ho scelto io di partire per questa stupida missione!
Mi fermai, tentando di riprendere fiato. Sentivo l'adrenalina scorrere nel sangue, le mani tremare dal desiderio di muoversi; dovetti stringere i pugni finché le unghie non penetrarono nella carne per costringermi a restare ferma.
Ferma e respira.
Come quando tiri con l'arco.
Non è difficile.
Espira. Inspira.
Espira. Inspira.
Alyx non si era mossa, né aveva aperto bocca. Semplicemente mi fissava dall'alto al basso, come uno scienziato esamina un esperimento particolarmente curioso.
— Interessante... — mormorò. Mi perforò con lo sguardo, fissandomi dritta negli occhi. Ambra nell'ambra. — Potresti essere un'arma, Luna Wolfson. Mi chiedi perché non te l'ho detto prima, perché non ti ho lasciato decidere. La risposta è semplice: mi servi, mi serve il tuo potere. Ne ho bisogno per salvare la mia signora . — La sua voce era dura come acciaio, fredda come ghiaccio, priva di emozioni; mentre i sensi tornavano lentamente alla normalità, al ritmo del respiro che cercavo di controllare, mi sentii rabbrividire. Jazmine aveva ragione: nascondeva qualcosa. Si era creata un'armatura di ghiaccio... ma per proteggersi da cosa?
—Ora, se non ti dispiace, vado a prepararmi per partire. — E, senza tante cerimonie, mi passò bruscamente accanto e si allontanò tra gli alberi del bosco, in direzione del sole e delle voci, silenziosa come un lupo sul tappeto di foglie secche.

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