CAPITOLO NOVE

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Inspira. Tendi la corda. Espira.
Inspira. Prendi la mira. Espira.
Inspira. Lascia andare la corda. Espira.
La freccia si impiantò con un colpo secco esattamente al centro del bersaglio.
Il mondo intorno a me si fece di nuovo nitido.
—Wow! — esclamò James. — Mi hai battuto! — Quel giorno si era tinto le striscie nei capelli di blu, come i suoi occhi. Indossava una canottiera arancione che riusciva a mettere ancora più in risalto le sue braccia, muscolose al punto giusto, e un paio di pantaloni beige al ginocchio. — Sai — fece, pensieroso — potresti essere anche tu una figlia di Apollo.
—Hai dimenticato che mio padre è un mortale?
—Beh, — rispose lui con una scrollata di spalle — Apollo non ha mai fatto caso a questo genere di cose. Ad esempio, anche il padre di mia sorella Kayla, o meglio, uno dei padri di Kayla, è un mortale.
Feci una smorfia. Di certo non ero dispiaciuta per il fatto che James avrebbe potuto essere mio fratello. Ovviamente non lo ero.
—Mio padre mi ha sempre raccontato di una madre, non di un altro padre.
—Ah. Però sei bravissima con l'arco.
—Grazie...

Quel giorno James si era presentato davanti alla porta della cabina con un sorrisetto e aveva annunciato a una me piuttosto assonnata che avrei dovuto cominciare l'allenamento dopo colazione.
Appena il tempo di ingurgitare il mio caffè e di ficcare in bocca la brioche al cioccolato, che già mi stava trascinando via dal tavolo. Con mio grande disappunto. Cioè, ero curiosa di vedere cosa intendevano qui per "allenamento", e avevo una voglia matta di muovermi... però, dai... la mia povera brioche...
Adesso erano le cinque del pomeriggio. Il sole splendeva ancora, anche se non era più alto nel cielo. Avevo sempre trovato disorientante il cambiamento della luce del sole tra inverno e estate. Ecco un altro motivo per cui preferivo la notte. Una volta buio, era sempre buio allo stesso modo. D'accordo, c'erano le notti di luna piena, e le notti in cui la luna non c'era proprio, però io lo trovavo un cambiamento più...affascinante che disorientante. Boh.
Comunque.
Dicevo.
Avevo passato tutto il giorno ad allenarmi, esclusa l'ora e mezza per il pranzo, e le pause fra un esercizio e l'altro.
Per ora avevamo scoperto che facevo schifo con la spada, che non ero in grado di sollevare un'ascia senza rischiare di mozzare gli arti di chiunque mi stesse intorno, che la lancia non faceva per me, che mi piaceva da matti volare su un pegaso, anche se preferivo arrampicarmi su un albero, che nella corsa ero piuttosto veloce, che me la cavavo nel lancio dei coltelli, che nell'arrampicata ero straordinariamente agile.
“Sembri Katniss Everdeen, di Hunger Games” aveva commentato James, e io non avevo capito chi fosse. Così lui mi aveva spiegato che era il personaggio di un libro. Ero rimasta stupita dal fatto che leggesse, ma non avevo detto niente.
Infine, avevamo scoperto che nel tiro con l'arco ero abile quanto i figli di Apollo. Tanto che loro ormai si erano convinti che io potessi essere una loro sorella. Eppure io non mi sentivo una figlia di Apollo. Loro erano tutti così allegri, così solari. Io non ero come loro. Preferivo la luna al sole. E non solo per il fatto che portassi il suo nome.
Io non ero come loro.
A ogni secondo che passava senza essere riconosciuta, una voce nella mia testa mi ripeteva che forse c'era stato uno sbaglio. Forse io ero stato uno sbaglio. Forse quel posto, in cui cominciavo a sentirmi veramente a casa, non era la mia casa.
E continuava a sussurrarmelo nella testa, inesorabilmente, insistentemente, spietata.
Cazzo, stava seriamente cominciando a rompere : era da ieri sera che non la piantava. Per colpa sua non ero praticamente riuscita a dormire.
Tu non dovresti essere qui.
Zitta.
È stato uno sbaglio.
Smettila.
Tu sei uno sbaglio.
Basta.
Questo non è il tuo posto.
Non è vero.
E non lo sarà mai.
Sparisci. Dalla. Mia. Mente.
Mi stava facendo impazzire.
Io volevo sentirmi a casa, lì. Volevo lasciami il passato – e mio padre – alle spalle. Volevo cominciare una nuova vita, in una nuova realtà, con nuovi amici.
I ragazzi, lì, erano quasi tutti simpatici, gentili, e volevano fare amicizia con me.
James era simpatico e gentile.
Percy era simpatico e gentile.
Annabeth era simpatica e gentile.
Jason, il figlio di Giove, era simpatico e gentile.
Piper, la figlia di Afrodite, fidanzata di Jason, era simpatica e gentile.
Frank, il figlio di Marte, pretore del Campo Giove – da quello che avevo capito la versione romana del Campo Mezzosangue, situata a Nuova Roma, a San Francisco – era simpatico e gentile.
Hazel, la figlia di Plutone, venuta in visita al Campo Mezzosangue assieme al suo ragazzo Frank, era simpatica e gentile.
Will era simpatico e gentile.
Nico...beh lui non era particolarmente simpatico e gentile, essendo figlio di Ade, il dio degli Inferi, ma non mi trattava male. Anzi, era quasi amichevole. A modo suo, naturalmente. Mi parlava quasi volentieri. Mi piaceva come persona: si vedeva che aveva avuto una vita difficile, ma era riuscito a superarlo, e ciò lo rendeva una persona vera.
Ero lì da circa ventiquattro ore e avevo già fatto amicizia con tipo metà Campo. Sapevo che essere una semidea non era per niente tutto rose e fiori, ma a me sarebbe apparso tutto perfetto.
E invece no, naturalmente. Persino qui, in un campo estivo per ragazzi figli di antiche divinità greche, dovevo essere diversa. Quella che non si sono degnati di riconoscere. Quella che sta ancora cercando di capire chi è.

𝕷𝖆 𝕱𝖎𝖌𝖑𝖎𝖆 𝕻𝖗𝖔𝖎𝖇𝖎𝖙𝖆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora