CAPITOLO DICIANNOVE

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Un soffio di vento fresco mi accarezzò la pelle e mi scompigliò i capelli, entrandomi nelle narici.
L'aria sapeva di pino, resina e terra bagnata.
Com'è possibile?, si chiese una parte cosciente del mio cervello. Se questo è un sogno, come faccio a sentire gli odori?
Aprii gli occhi.
Mi trovavo al centro di una radura.
I profili degli alberi mi circondavano, ricordandomi vagamente una qualche cerchia satanica, e si stagliavano scheletrici contro il cielo nero.
Io sono già stata qui. Il pensiero mi colpì come un pugno nello stomaco. Un'altra notte, in un altro sogno.
Rabbrividii.
Riuscivo ancora a sentire gli ululati, i ringhi minacciosi, lo schioccare delle mascelle, il baluginio delle zanne. Mi parve di rivedere una figura cadere...
L

a luna apparve all'improvviso da dietro le nuvole, colpendo con un suo raggio una sagoma distesa a  bocconi in un angolo della radura.
Sentii un groppo serrarmi la gola.
Non volevo avvicinarmi. Volevo scappare, correre via, fuori da quel sogno. E allora perché le mie gambe si muovevano, inesorabili, verso quella figura accasciata sulle radici degli alberi?
A un metro di distanza, le gambe mi cedettero, e caddi sulle ginocchia, che colpirono con forza il terreno umido.
Deglutii, e allungai una mano tremante verso il giubbotto argentato sporco e lacero.
Fa' che non sia morta.
Feci un respiro profondo, e strinsi la sua spalla, per poi voltarla sulla schiena.
Fa che non sia morta, pregai ancora una volta. Ti prego, fa che non sia morta.
E poi incontrai i suoi occhi senza vita.

I capelli d'ebano si sparsero fra le foglie secche quando girai il suo corpo inerme, e oscurarono il flebile scintillio del cerchietto d'argento. La sua pelle era più simile a una statua di marmo che a un essere umano, priva del colore della vita. I suoi occhi mi fissarono senza riuscire a vedermi; mi parvero tristi, come se fossero consapevoli di non riuscire più ad adempiere al loro compito e ne fossero incredibilmente dispiaciuti. Sentii un brivido scorrermi lungo la schiena nel notare che erano completamente identici ai miei.
Anche i miei occhi sarebbero stati così quando sarei morta?
La osservai, senza urlare, senza muovere un muscolo, gelata sul posto.
Non faceva paura, come mi sarei aspettata. E, in effetti, cosa c'è di spaventoso in un guscio abbandonato?
No, non mi faceva paura; sembrava solo... sbagliato.
La vita è la cosa più preziosa che possediamo.
Come può esistere qualcuno che si sente in diritto di romperla?, mi chiesi, stringendo forte i pugni sul terreno umido. Nessuno dovrebbe avere il diritto... di infrangere una vita.
Lasciai scivolare lo sguardo lungo i lineamenti del suo viso, gli occhi, il ponte del naso, le labbra livide sporche di sangue, il mento su cui era ancora visibile una scia secca del liquido cremisi. C'era qualcosa di familiare, in lei. E non perché l'avevo già vista in sogno. No, c'era qualcos'altro... Qualcosa che non riuscivo ad afferrare... un ricordo che sfuggiva come acqua tra le dita...
— Che scena commovente.
Mi irrigidii.
All'improvviso, percepivo una presenza alle mie spalle. Non me n'ero accorta, prima. Come se fosse apparsa tutto a un tratto.
— Una riunione di famiglia — continuò la voce, roca e profonda; mi diede l'impressione che non avesse parlato per così tanto tempo da dimenticare come si faceva. — È un peccato... — Sentii la presenza avvicinarsi, smuovendo le foglie ad ogni passo in un morbido fruscio. Rimasi immobile, i nervi tesi. Poi un'ombra si stagliò sopra di me, coprendo la luce della luna. I passi si fermarono. — ...che ormai sia troppo tardi.
Riuscii a trovare il coraggio di voltarmi, costringendomi a respirare profondamente.
L'uomo ghignò, scoprendo i denti di un bianco abbagliante. Il suo volto sarebbe stato bello, se non fosse stato per le tante piccole cicatrici che lo deturpavano. Gli occhi erano due buchi neri, colmi dell'oscurità più profonda e impenetrabile, e i capelli un groviglio scuro che gli scendeva sulle spalle, larghe almeno il triplo delle mie. Indossava solo un paio di laceri pantaloni di juta, legati in vita da una cintura che esponeva una serie di armi da caccia dall'aria micidiale; asce, accette, coltelli, pugnali di varie forme e dimensioni luccicavano minacciosi sotto i raggi della luna, ansiosi di squarciare delle carni. Il petto nudo, dalla carnagione bronzea interrotta soltanto dalle linee pallide di una moltitudine di cicatrici, pareva scolpito nella pietra, tanto perfetti e imponenti erano i muscoli che metteva in mostra. A tracolla portava una faretra munita di arco e frecce. I bicipiti del braccio nudo, decorati da un intreccio di linee scure simili a un intrico di rovi, si gonfiarono quando portò una mano sopra la testa e afferrò una freccia, per poi cominciare a passarsene con disinvoltura la punta sotto l'unghia.          
Deglutii a fatica. La mia bocca sembrava il deserto del Sahara.
— Chi... — Concentrati, mi dissi, Devi apparire più sicura di così. — Chi sei tu?
L'uomo sogghignò. — Chi sono? — ripeté, alzando lo sguardo su di me. — Oh, andiamo, mia piccola principessa, non dirmi che tua madre non ti ha mai parlato di me!
Sgranai gli occhi. — Di cosa stai parlando?
Quello finse un'espressione dispiaciuta. — Ops! Forse sono stato indelicato... già... in effetti, le madri non parlano mai dei propri amanti con i figli. Ti chiedo scusa.
Strinsi i pugni nel terreno. — Tu... — ringhiai.
— Io. — L'uomo si portò una mano sul petto, esibendosi in un piccolo inchino. — Molto piacere. Forse potrei presentarmi come il tuo peggior nemico, ma, sinceramente, lo trovo piuttosto irragionevole. Mi farebbe apparire come il cattivo, e io non voglio essere il cattivo. Quindi, mia piccola principessa, mi presenterò come un tuo alleato.
Le sue parole mi spiazzarono. — Cosa... cosa stai dicendo?
— Sto dicendo, principessa, che non devi aver paura di me, e non devi nemmeno combattermi. Non sono io il cattivo. — ribatté.
Mi ronzavano le orecchie.
— Sei tu che tieni imprigionata Artemide? — mi azzardai a chiedere, tirandomi lentamente in piedi. In quel momento più che mai, sentivo davvero la mancanza del mio arco.
L'altro scrollò le spalle con noncuranza. — Forse. — rispose, vago. — Ma, dimmi, perché ti interessa? L'hai forse mai conosciuta? Le devi forse qualcosa?
Mi bloccai.
Mi aveva appena posto le stesse domande che mi ripetevo ogni giorno, e che sempre cercavo di scacciare.
Ma la risposta era “no”, e io lo sapevo benissimo.
Non risposi, ma l'uomo sembrò soddisfatto.
— Come pensavo. — Si fece avanti, allungando le braccia come per posarmele sulle spalle. Io feci d'istinto un passo indietro, e, in quel momento, la radura svanì.
Gli alberi, il cielo stellato, il corpo di Kira Wolfson scomparvero sostituiti dall'oscurità.
Non riuscivo a vedere niente, eccetto l'uomo di fronte a me.
— E allora perché lo fai, Luna? Perché vuoi salvarla? — La sua mano mi sfiorò il viso, prendendomi poi il mento tra due dita. Sentivo il cuore minacciare di esplodere all'interno del mio petto. Ogni singola cellula del mio corpo mi intimava di allontanarmi, di porre fine a quel contatto maledetto. Ma non riuscivo a muovermi. Ero imprigionata all'interno del mio stesso corpo. — Non sarebbe molto più semplice — La voce roca dell'uomo si era fatta bassa e suadente. — lasciare perdere e basta? Se mi aiuti, non ci sarà nessuna battaglia, nessuno spargimento di sangue. E tutto ciò che ti chiedo in cambio è quel piccolo ciondolo che porti al collo.
Riuscii a serrare i pugni, immobilizzati, come le braccia, lungo i fianchi.
— Levami quelle luride mani di dosso. — sputai quelle parole con quanta più rabbia riuscii a imprimervi, ma qualcosa dentro di me si stava chiedendo se davvero ne valesse la pena.
L'espressione dell'uomo si indurì. Lasciò cadere di scatto la mano, e mi puntò poi un dito contro il petto. — Ti facevo più intelligente, figlia di Artemide. Tu non hai nemmeno idea di chi sia tua madre, in realtà. Non hai idea di cos'abbia fatto lei, e di cos'abbiano fatto i tanto osannati dei dell'Olimpo.
La sua voce trasudava tanta rabbia e risentimento che dovetti stringere forte le mani a pugno per impedire loro di tremare.
— Una volta, Artemide si innamorò di un uomo. — disse all'improvviso. — Lo sapevi?
Non risposi, mi limitai a fissare lo sguardo nel buio, cercando di non incrociare quegli occhi furiosi. — Quest'uomo era un abile cacciatore. Cominciarono ad uscire a caccia assieme, e, piano piano, tra di loro sbocciò qualcosa. — Fece un verso di scherno. — Ma poi lui morì. Esistono varie versioni della storia. Chi dice che sia stato ucciso per sbaglio dalla stessa Artemide, chi pensa sia stato un inganno da parte del dio Apollo a condurlo alla morte. Ma, in realtà, comunque sia andata, la colpa è di Artemide. Sua, e di quel manipolo di inutili entità che si fanno chiamare "dei". — Accennò una breve risata sarcastica. — Dimmi, principessa, — Avvicinò il suo volto al mio, costringendomi a fissarlo negli occhi. Mi imposi di rimanere calma e di non cedere al panico. — sai che fine facevano coloro che osavano innamorarsi della dea vergine?
Deglutii, poi feci lentamente segno di “no” con la testa.
— Una volta ne trasformò uno in un cervo, e lo fece poi sbranare dai suoi stessi cani. Solo per farti un esempio. — rispose secco il cacciatore. — Hai davvero intenzione di porre la tua fedeltà nelle mani di una dea del genere?
Io non risposi. Mi limitai a sussurrare, la voce che stentava a uscirmi dalle labbra: — Chi... sei... tu?
Quello ghignò. — Mai sentito parlare del mito di Orione?
All'improvviso, fu come se i neuroni del mio cervello si collegassero per la prima volta.
Mi venne in mente la costellazione della cintura di Orione, mi tornò in mente il mito. Capii chi era quel cacciatore di cui si era innamorata Artemide. Capii perché quel tipo ce l'avesse tanto con lei.
— Tu... tu sei...
— In persona. — ghignò. — Molto piacere, figlia di Artemide.
Mi mancò il fiato. Mi girava la testa. — Ma... tu... Dovresti essere morto.
Orione strinse la mascella. — Me lo dicono spesso, e non è piacevole.
— Come...
Il cacciatore rise, buttando all'indietro la testa. — Vuoi sapere la parte divertente? È stata proprio Artemide a tirarmi fuori dagli Inferi. È stata una sciocca, per essere una dea. Diceva di essere dispiaciuta... — Orione ridacchiò di nuovo. — Ha commesso un gravissimo errore... — Poi si fece di nuovo serio. — Luna, dammi il Diadema d'Argento. Lascia che io compia la mia vendetta, e anche la tua. Ti ha rovinato la vita. Perché dovresti salvarla? Ti sto dando la possibilità di riportare tutti i tuoi amici a casa, sani e salvi. Anche... James.
Trasalii, nel sentire il suo nome. — Come fai a conoscerlo?
— Oh, al momento non ha importanza. — ribatté con un sorriso. — Ciò che importa è che si salverà, se solo tu mi darai quel tuo ciondolo.
Portami una mano al petto, dove nascondevo l'amuleto a forma di mezzaluna sotto la maglietta.
Dovevo solo toglierlo... e darlo a lui. E tutto si sarebbe risolto. Sarei potuta tornare a casa. Tutto sarebbe tornato alla normalità. Dovevo solo liberarmi di quel ciondolo che nemmeno volevo.
Le lacrime mi offuscarono gli occhi.
Già, perché non lo facevo? Era così semplice.
Sfiorai l'argento freddo con le dita, e questo parve pulsare debolmente sotto il mio tocco, come per implorarmi di non farlo, di non cederlo al cacciatore.
Poi mi bloccai.
Puntai lo sguardo sul volto di Orione, che aveva già allungato una mano aperta nella mia direzione.
— Tu... l'hai uccisa.
Il sorriso trionfante sulle sue labbra si spense. L'espressione si fece dura. — Di che stai parlando, ragazzina?
— Kira Wolfson. — ringhiai — L'altra figlia di Artemide. L'hai uccisa.
— Era una stupida anche lei. — replicò — Non l'avrei uccisa se mi avesse dato ciò che volevo. Non ne avrei avuto alcun bisogno.
— Ma l'hai fatto. L'hai fatta uccidere. — All'improvviso riuscii a muovere di nuovo le gambe, e feci un passo indietro, tentando di allontanarmi. — Sei solo un assassino. — sibilai — Non ti darò mai ciò che vuoi. — Strinsi le dita attorno al piccolo ciondolo d'argento, come per proteggerlo.
— Sei una sciocca. — Si mosse troppo velocemente perché potessi prevedere le sue mosse. Sentii delle dita stringermi la gola. I suoi occhi luccicavano di rabbia.
Boccheggiai, tentando invano di prendere aria.
— Sprechi così le vite tue e dei tuoi amici, per una dea che nemmeno conosci. — La presa si strinse, e la mia vista cominciò ad offuscarsi. — Hai tre giorni per consegnarmi il Diadema, altrimenti le mie truppe di mostri attaccheranno il tuo Campo per piccoli dei. — Fece una piccola pausa, come se stesse riflettendo. — Oh, naturalmente, non provare ad avvisare i tuoi amichetti al Campo, altrimenti darò l'ordine di attaccare immediatamente. E, fidati, saprò se hai tentato di contattarli. — Ridacchiò al mio orecchio. — Che ne pensi, ora? Sono bravo a fare il cattivo, tu che dici?
Avrei voluto ribattere, ma la presa sulla mia gola mi stava soffocando. La vista mi si appannava sempre di più. Faticavo a respirare.
— Hai ancora la possibilità di fare la scelta giusta, figlia di Artemide. Sacrificherai davvero le vite dei tuoi amici per una dea che non ti ha mai aiutato? — sussurrò Orione al mio orecchio, e poi scomparve, e io sprofondai nelle tenebre come se stessi annegando nell'oceano.

Angolo Autrice:
Avrei voluto pubblicare ieri, ma ho avuto problemi con la connessione.
Quindi faccio gli auguri a Jason in ritardo.

Prendiamoci un momento per augurare buon compleanno al nostro unico e inimitabile Superman biondo.

Che i mattoni e le spillatrici siano con voi.

Amen.

Jason: *sviene*

𝕷𝖆 𝕱𝖎𝖌𝖑𝖎𝖆 𝕻𝖗𝖔𝖎𝖇𝖎𝖙𝖆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora