40. Incubi a Capodanno... 1/2

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Avevo resistito un giorno,
dove sei che fai io sono qui vediamoci

due,
anche oggi mi sono svegliata con l'odore di Roma che mi picchia forte e il pensiero del tuo che non sento da un po'

poi Natale,
un milione e mezzo di auguri di cui non mi importa nulla e tutto quello che vorrei sarebbe solo dirti che io il Natale lo volevo passare con te tra le tue braccia persa col naso in un maglione rosso con le renne

Santo Stefano,
ancora tutti qui a mangiare in una tavolata che pare infinita e tutti parlano di tutto e la nonna mi chiede il fidanzatino dov'è e io le vorrei dire che l'ho perso mi è scivolato in una sera in cui l'afa ti si appiccicava addosso come la sera dell'anno prima in cui addosso mi si era appiccicato lui

ancora un altro giorno, due, tre, quattro,
ci svegliamo all'ombra dello stesso quartiere ogni maledetto giorno e il solo fatto che ci smezziamo la stessa temperatura lo stesso sole che non scalda lo stesso vento che ci spazza le ossa mi manda in tilt

a Capodanno ero crollata.

E il gioco lo teneva in mano lui.

E io ero un'illusa.

"Ridammi le mie parole" gli avevo scritto a mezzanotte in punto, quando tutti si abbracciavano, ridevano e scherzavano, si baciavano, chiamavano il fidanzato o la mamma, suonavano i coriandoli e lanciavano trombette o forse era il contrario, ma la confusione era troppa per capirlo. Io me ne stavo in disparte, seduta su uno sgabello, con i capelli gonfi per l'umidità e la piega irrimediabilmente rovinata, il rossetto sbavato dal cibo del cenone, il vestito rosso spiegazzato come un foglio prima accartocciato e poi lanciato con una mira terribile verso il cestino dei rifiuti.

Ero lì, ma non ero lì.
Perché io con tutti quelli lì non c'entravo nulla.

"Auguri anche a te, amore" aveva risposto poco dopo e a me aveva fatto solo ribollire il sangue nelle vene e venire voglia di tuffarmi tra la gente, raggiungere il primo muro disponibile e prenderlo a testate per la frustrazione. Perché per lui era tutto così maledettamente scontato, come se niente fosse, come se andasse tutto bene e invece qui bene non andava nemmeno per un cazzo.

"RIDAMMI LE MIE PAROLE"
"Quando Bì?"
"Domani pomeriggio alle tre, Casina dei Pini."

Non aveva risposto più.

Un luogo neutro, avevo pensato.
Fuori dal nostro quartiere, che non mi ricordasse troppo quello che avevamo e che io credevo fosse scritto a penna, invece era grafite e si poteva cancellare con una gomma... bianca. Separati da un tavolino e circondati dai camerieri e da altra gente. In un orario a metà, che è appena finita la mattina ma il pomeriggio sembra quasi che debba ancora iniziare, un orario che non sapeva di nulla, come noi. Un orario in cui poter ordinare caffè e altre cose asettiche a cui non eravamo abituati, noi che ci baciavamo con i residui di birra o di uno shottino incastrati tra le pellicine delle labbra riarse.

Non sapevo che mettere. Non volevo essere troppo bella o troppo truccata, non volevo che sembrasse che mi fossi preparata apposta. Non volevo essere troppo sciatta o con le occhiaie in evidenza, non volevo che pensasse che in quei mesi ero cambiata, ero brutta, o - Dio non voglia - mi ero consumata senza di lui.
Che poi era vero, ma lui non avrebbe dovuto saperlo.
Mai.

E adesso sono qui, seduta sul primo gradino delle scale, che stringo i bordi dello scalino di marmo con forza, quasi a imprimermeli nei polpastrelli. Riesco a vedere, attraverso la porta a vetri del condominio, il mio scooter parcheggiato fuori e so che bastano pochi passi, per raggiungerlo.
Girare la chiave, accenderlo, partire.
Guidare.
Arrivare, parcheggiare.
Forse aspettarlo, vederlo.
E poi?

Tu sei (Le ceneri)Where stories live. Discover now