15. Limiti e scheletri

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2010

«Bea?»
«Mmmh mmmh?»
«Tu che sai tutto... che vuol dire nosce teissum?»

Mi volto verso di lui con le sopracciglia aggrottate. «Apprezzo la fiducia sconfinata, Andre', ma non è che sono Wonder Woman. Sarebbe sufficiente che studiassi il minimo necessario e andassi a scuola ogni tanto, invece di passare la vita a farti bocciare, per sapere qualcosa anche tu.»

Mi zittisce con un gesto annoiato della mano, mente mi fa il verso.
Nota dolente, quella: non sono ancora riuscita a convincerlo a impegnarsi per prendere questo maledetto diploma.

«E dai, rispondimi.»
«Ripeti allora, che non ho capito. Nosceche?»
«Nosce teissum. Teitsum. Oh, insomma, sei tu l'esperta.»
«Nosce te ipsum» dico, sorridendo di fronte alla sua espressione confusa. «Conosci te stesso. Deriva dal greco in realtà, γνθι σεαυτόν. Come ti è venuto in mente?»

Guardo Andrea giocando con la matita, mentre questo scambio di battute si è palesemente trasformato in una pausa studio. Sempre più spesso viene a casa mia nel pomeriggio, a quanto pare gli basta semplicemente rimanere a guardarmi così, mentre faccio i compiti: dice che gli piace l'espressione che assumo quando sono assorta, storcendo le labbra in maniera buffa.
Pff, io non sono buffa.
Ricambio il favore accompagnandolo quando prova in giro per locali e perdendomi nell'osservarlo prendersi cura della chitarra (che ho scoperto chiamarsi Matilde - che razza di nome è, Matilde, per uno strumento? - ), mentre Anna prova qualche solfeggio.

«L'ho sentito in tv, aveva un bel suono. Quindi dice che ti devi conoscere?»
«Sì, ma non esattamente: in realtà è nato più come un invito a conoscere i propri limiti, consapevoli che, miseri mortali, si è sempre inferiori rispetto agli dei; nell'accezione odierna è un'esortazione a stare, in un certo senso, al proprio posto, a riconoscere i propri confini fisici e mentali e non oltrepassarli.»
«Come parli difficile» borbotta, poi ci pensa qualche secondo su. «Io non voglio rimanere al mio posto, Bea. Io voglio superarli, i miei limiti: voglio spingermi oltre.»
«Non temi che potresti perdere delle parti di te, così facendo?»
«Un piccolo prezzo da pagare per una vita vissuta alla grande.» Si stringe nelle spalle e si mette a pancia in su, incrociando le mani sotto la testa. «Voglio sfidare me stesso ogni giorno.»

In qualche modo sfido anch'io ogni giorno me stessa, immersa nella quotidianità in cui alla fine il dopo è arrivato, dipanandosi in un mese di scoperte, di baci, di kebab mangiati in piazza, di birre divise a metà, di saluti rubati tra il ferro del cancello a ricreazione, di locali da riempire di musica e parole.
Sfido la vita facendo a pugni con l'essere mutevole di Andrea. Come la luna, ora crescente, ora calante, condiziona, volubile, le mie maree senza che vi riesca a opporre limite.
Entro nel suo mondo a piccoli passi, in punta di piedi. Mi aiuto con la sua musica, ma senza esagerare, per non invadere troppo questo spazio in cui pare trovare realmente serenità.

Per qualche tempo ho pensato - anzi, l'ho quasi sperato, oserei dire con una punta di egoismo - di poter essere io il solo spazio in cui trovasse serenità, isola felice nel suo mare di turbamento, ma ben presto ho fatto i conti con due cose.
La prima è che Andrea, senza la musica, non è che un ragazzo a metà, altrimenti incapace di comunicare appieno; non potrei mai ergermi al di sopra della musica, perché Andrea è la sua musica.
La seconda è correlata al fatto che il dopo è arrivato anche nascosto tra le giunture degli scheletri nell'armadio (e nei comodini, nelle librerie, nelle cassettiere, sospetto anche nel frigo), tra gli sms cancellati, tra le fughe improvvise, tra le occhiate di ragazze dai volti più o meno conosciuti, tutti uguali, anonimi, nei mille locali di Andrea. Si è fatta largo in me l'impressione che più che un'isola felice, avesse bisogno di un intero arcipelago; leggera, ma pesante, come solo le supposizioni mai confermate, ma nemmeno smentite, sanno essere. Come una carezza di ferro sul cuore.

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