40. Incubi a Capodanno... 1/2

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Gennaio 2011

Capodanno è stato un incubo.

Un incubo iniziato su un freccia rossa Milano-Roma - treno in partenza dal binario cinque - , tre ore e rotti di bambini felici, uomini d'affari che urlavano al telefono, anziane ciarlanti che disquisivano sui nipoti e sulla battaglia culinaria polenta versus gricia e io che mi lasciavo invadere dall'angoscia ogni metro che mi avvicinava a Roma più dell'altro.

Non era tanto quello che mi aspettava una volta arrivata, a spaventarmi, quanto il semplice fatto che io mi stessi avvicinando al centro pulsante dei miei problemi, al punto nevralgico, quello da cui si dipanava ogni cosa che avevo cercato accuratamente di evitare.
Con evidenti e scarsi risultati.

Roma mi attirava come una calamita: tornare a casa, riscoprire abitudini che sembravano appartenere a una vecchia me - una che, nonostante fosse più grande di soli pochi mesi, portava sulle spalle tutto il peso e le responsabilità che la vita da sola in una città sconosciuta comportava - , ritrovare amici, famiglia, luoghi, cose.

Chi volevo prendere in giro?

Ritrovare Andrea.

Termini, il giorno in cui avevo rimesso piede sul suolo capitolino, non mi era mai sembrata così bella. Era solo una stazione, peraltro una un po' disfunzionale e tutto sommato messa male, con la puzza di pipì e i barboni buttati su Piazza dei Cinquecento, piena di negozi, di bar che ti tirano dietro il caffè a peso d'oro e di una fila di taxi così lunga, a giorni, che conviene tentare la fortuna con uno degli autobus della famiglia ATAC o fare conto sui propri piedi - ché di sto passo... - , ma era pur sempre casa mia. Era pur sempre il primo posto che mi avrebbe accolta, come fosse il tappeto d'ingresso, solo che invece di essere infeltrito e con la scritta "Welcome", era lastricato e circondato da gente con più fretta che sentimenti.

Quel giorno capii che sarei potuta andare ovunque, ma la parte migliore del mio viaggio sarebbe stata sempre il ritorno a casa, qualunque cosa mi avrebbe atteso in mezzo a questi maledetti sampietrini.
Qualunque.
Persino Andrea.

Soprattutto Andrea.

Lui immaginava che sarei tornata, erano pur sempre le vacanze di Natale, ma, spalleggiata dalle Tine cui avevo raccontato tutto e da Noemi che tirava cuscinate di frustrazione allo schermo mentre eravamo su Skype - con un ritmo ordinato che prevedeva circa "Io" cuscinata "te" cuscinata "l'avevo" cuscinata "detto" cuscinata finale - , avevo deciso di non rivelargli il giorno in cui l'avrei fatto. Non volevo che mi aspettasse, che prevedesse, che pensasse. Volevo essere io a tenere in mano il gioco.

Andrea, dal canto suo, non aveva solo rispettato la mia scelta, aveva fatto di più: si era dimostrato talmente comprensivo da sparire, lasciarmi i miei spazi, permettermi di capire, scegliere, decidere. E da quel momento mi ero resa conto che i nostri silenzi non mi erano mai sembrati così roventi, la sua assenza così opprimente, la sua mancanza così claustrofobica: era come vivere continuamente in un ascensore gremito di gente e bloccato a metà tra il terzo e il quarto piano.

Lui aveva giocato d'astuzia, lasciandomi in preda alla smania di averne ancora, ancora e ancora, dopo l'ultima volta che l'avevo sentito. Aveva saputo creare in me un bisogno che credevo di non avere, o quantomeno pensavo sopito, lasciandomi priva della possibilità di dire che mi stava soffocando, schiacciando, che stava invadendo i miei spazi e la mia libertà, che non gli spettavano più, che non lo volevo vedere o sentire, che doveva sparire e lasciarmi in pace. Mi aveva privato del pretesto per insultarlo.

E io volevo insultarlo ancora, Dio solo sa quanto lo volevo.
E ovviamente volevo sapere se al telefono, quella sera, lo avessi insultato a sufficienza.
Era di fondamentale importanza.
Solo per questo volevo saperlo, eh.

Tu sei (Le ceneri)Where stories live. Discover now