19. Sei qui per lei?

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Quando quello stesso pomeriggio il mister mandò tutti negli spogliatoi alla fine dell'allenamento, Federico, invece di seguire i suoi compagni e andare a cambiarsi, prese il corridoio che portava alla sala da boxe.

Impiegò meno di un minuto a sistemarsi le fasciature - era meglio non rischiare di ridursi le nocche della mani a come se le era ridotte Mario - e poi cominciò a dare dei colpi decisi al sacco, fermandosi di tanto in tanto per riprendere fiato o per spostare il ciuffo che continuava a ricadergli sul viso.

La sessione di allenamento di quel pomeriggio non lo aveva per niente stancato, tutt'altro, e quando il mister li aveva mandati a cambiarsi gli sembrava di aver cominciato neanche un'ora prima.

Le uniche soddisfazioni di quella giornata erano stati i goal che era riuscito a fare su punizione a Buffon: uno nell'incrocio dei pali - oggettivamente quello migliore -, uno facendo passare la palla sotto alla barriera e l'altro entrato in porta grazie ad un rimbalzo che aveva ingannato il portiere sulla traiettoria del tiro.

Voleva tornare a casa stanco morto, così avrebbe potuto andarsene direttamente a letto a dormire invece di passare la serata a pensare ed autocommiserarsi.

Sentiva le mani e i muscoli delle braccia ad ogni colpo sempre più stanchi, gocce di sudore gli imperlavano la fronte, ma non aveva intenzione di smettere, quello era l'unico modo per dar sfogo a tutto il mare di emozioni che teneva dentro.

Come se le cose non fossero già state abbastanza difficili di loro, ci si era dovuto mettere in mezzo pure Dybala.

Ma non lo biasimava, no di certo.

Non era colpa sua se Alice era meravigliosa e riusciva a piacere a chiunque, senza nemmeno sforzarsi.

Non era colpa sua se era capace di metterti di buon umore con un semplice sorriso, se sapeva conquistarti con uno semplice sguardo con quegli occhi azzurri che si ritrovava, se sapeva essere fragile, forte, divertente, sensuale allo stesso tempo.

No, non poteva di certo biasimare il compagno di squadra se si era infatuato di lei, poteva solo incolpare se stesso di essersela fatta sfuggire e di non avere la minima idea su come riprendersela.

Diede un pugno talmente forte che lo fece imprecare: «Cazzo!»

Si prese la mano dolorante con l'altra, stringendo le labbra per il dolore e la tenne così per qualche secondo, fino a che il dolore non sembrò alleviarsi.

Prima di ricominciare decretò che fosse meglio infilarsi i guantoni.

Federico non era uno che mollava al primo ostacolo, era uno che l'ostacolo lo abbatteva quasi senza farci caso e, se non ci riusciva la prima volta, continuava a provare e provare fino a quando non raggiungeva il suo obiettivo.

Era testardo, incrollabile, era fatto così, sia nella vita sia sul campo da gioco.

Era un leone, questo gli aveva detto una volta Alice.

Andava sempre a vederlo giocare quando la Fiorentina era in casa e quel giorno l'aveva aspettato fuori dagli spogliatoi assieme alle altre fidanzate e mogli dei suoi compagni di squadra e, una volta saliti in macchina, gli aveva detto - ancora si ricordava perfettamente le esatte parole -: Sembravi un leone oggi in campo, Fede.

Lui l'aveva guardata ridendo e lei gli aveva spiegato il perché di quell'affermazione: non aveva la fascia al braccio, ma visto da fuori sembrava il capitano, un po' come il leone che è a capo del branco e poi, i capelli così lunghi, sembravano quasi una criniera.

Non sapeva cosa fare, non aveva la minima idea di come farsi perdonare da lei.

Era come se si fosse costruita uno scudo per tenerlo il più lontano possibile da sé.

Potremmo ritornareWhere stories live. Discover now