35. Fuga da Alcatraz

Start from the beginning
                                    

Bianca - questo è il suo nome - è una ragazza come tante, con gli occhi color topo e i capelli color topo, anonima come una tomba in mezzo a un mare di tombe del Verano - morta, la voglio morta - , assolutamente comune, e ovviamente il fatto che lei sia proprio la signorina per bene con cui ho sgamato Andrea non mina assolutamente il mio imparziale metro di giudizio.

Neanche il fatto che abbia il nome di un colore.
Un nome inutile, di un colore inutile.
L'unico colore che poteva rimanere addosso ad Andrea.

Ciò che si merita.

Speravo che lo scoprire che Bianca fosse una totale nullità, una di quelle persone con la sfera emotiva dello stesso spessore di un foglio per la stampante in formato A4 - che, guardacaso, è bianco come lei - mi avrebbe aiutato a farmi lasciare andare dal dolore, anche solo un pochino, ma così non era stato. Quello ancora sorrideva compiaciuto, stringendomi nel suo claustrofobico apparato digerente e lasciandomi lì ad autocommiserarmi ricoperta dalla sua bava.

Sarà brutto da descrivere, ma mi sentivo proprio così.

Ero diventata l'ombra di me stessa. Non uscivo, non mangiavo, non facevo assolutamente nulla di nulla: semplicemente esistevo, trascinandomi dalla cucina, al soggiorno, alla camera da letto e intervallando la mia full immersion in musica deprimente, libri e Gossip Girl - che Noemi aveva scaricato per me su un paio di DVD - solo con i bisogni fisiologici e le sporadiche visite delle poche amiche che avevano il coraggio di resistere all'afa di Roma e alla mia altrettanto soffocante pigrizia emotiva.

Persino mio fratello Alessandro, che di solito non perdeva nemmeno un minuto per sfottermi, sembrava preoccupato e si impegnava, con scarsi risultati, a recuperare una qualche forma di rapporto confidenziale fratello - sorella irrimediabilmente perso in anni di Barbie decapitate e velati spunti di riflessione sul fatto che, magari, non era così inverosimile che potessi essere stata adottata.

Non so descrivere esattamente il momento in cui è accaduto, forse in un pomeriggio di fine luglio, a metà tra la terza e la quarta cucchiaiata di gelato al pistacchio della Sammontana affogato alle mie lacrime e al mio dolore con tanto di Semplicemente degli Zero Assoluto in sottofondo, fatto sta che è accaduto: la consapevolezza che stessi buttando la mia estate post maturità mi ha colpito in pieno volto come una pizza ben assestata.
Avevo rinunciato alla mia felicità, alla mia voglia di vivere, alla mia vita sociale, persino al viaggio di maturità, ma non avrei mai rinunciato all'unica possibilità di permettermi di riappropriarmi della mia dignità di persona.

Non sapevo come avevo fatto a non pensarci prima: la soluzione stava tutta lì, nel fatto che la mia città, in quel momento, mi sembrava una prigione. Mi sentivo condannata a una pena detentiva contorta e masochista, che per qualche incomprensibile scherzo del destino prevedeva che io - la vittima - fossi costretta a condividere il mio spazio vitale con il mio stesso assassino.
Non uscivo più perché ero in trappola.
Non vivevo più perché mi avevano carcerata.

Dovevo fuggire da Roma. Ma, soprattutto, dovevo fuggire da sola, per potermi permettere di dedicarmi del tempo, conoscermi, corteggiarmi e rinnamorarmi di me stessa.

Ed è così che adesso mi ritrovo su un tetto, uno qualsiasi, a una prima occhiata simile a uno dei tetti di Roma su cui mi sono lasciata portare da Andrea, uno di quelli su cui ci siamo amati, stesi su un lenzuolo e coperti da un manto di stelle. A guardare bene, però, le cose non stanno proprio così: l'aria è diversa, pizzica il naso e ricopre la pelle di una patina biancastra e salata, profuma di sole, di risate e di oleandri e ha il sapore dolce e morbido dei fichi d'India. Da qualche parte qui giù, su queste strade lastricate con pietre grosse e chiare, lise da un milione di passi, qualcuno batte la mano su un tamburello e l'agitare dei cimbalini crea un suono tintinnante e allegro, capace di farti venire voglia di muoverti, ballare, vivere. La gente sciama attraverso vicoli e viuzze, chiacchierando e ridendo, riempiendo di suoni, luci, colori ed estate la mia notte continua. E a me tanto basta.

Ho fatto un patto con i miei: sarei potuta partire da sola, interponendo quanti più chilometri possibili tra me e Roma, a condizione che fossi andata in qualche punto in cui potessi essere controllata a vista. Mi sono ritrovata così nella depandance momentaneamente sfitta della villetta al mare di una vecchia amica di mamma, una sua compagna di corso in università originaria del profondo sud Italia: divido le mie giornate tra levatacce all'alba, per poter correre indisturbata sul lungo mare; colazioni con cornetti caldi e appena sfornati, seduta sulla sabbia momentaneamente silenziosa a guardare le onde del mare nel loro pigro rincorrersi; passeggiate pomeridiane volte a perdermi nei mille vicoli stretti di questo paese affacciato sul mare come un bambino troppo curioso che desidera conoscere i misteri del blu; serate a farmi cullare dallo scirocco o dalla tramontana, seduta su una sedia a sdraio a righe bianche e verdi, a sentire la vita che scorre sotto di me con in mano una birra ghiacciata.

Proprio come stasera. Mi sono comprata un vestito bianco, 'sto pomeriggio, di lino morbido, mezzo trasparente, ma chi vuoi che mi veda, quassù, nascosta dal favore del buio e dell'altezza. Mi sono fatta il bagno, dopo aver comprato il vestito: mi sono immersa nell'acqua salata e ho fatto finta di avere le branchie e poter respirare anche così. Ho fatto finta di potermi adattare a un mondo diverso, con regole diverse, abitudini diverse. Quando sono tornata a casa, non ho lavato i capelli e ho fatto una treccia che ora odora di mare e mi penzola pesantemente sulla spalla destra.

Affacciata al cornicione, osservo la gente che, anche se sono le due di notte, si accalca in queste stradine manco fosse l'ora di punta.

Non sono ancora pronta a unirmi alla vita: rifuggo tutti gli orari più caotici, esco solo all'alba o nelle prime ore pomeridiane e di notte faccio l'eremita, tenendomi lontana dalla gente, rifugiandomi su questo tetto. Ho fatto amicizia con pochi pescatori del posto, col barista che mi tiene in caldo il cornetto, con la vecchietta curva e sorridente che ogni giorno mi regala una cartolina del suo negozio. Silvana, l'amica di mamma - rimasta vedova a trentott'anni, senza figli; una donnona dai cortissimi capelli biondi e la pelle resa spessa e callosa dalle avversità del posto e della vita - mi invita ad andare da lei per pranzo e per cena, insieme prendiamo il caffè e scambiamo due chiacchiere: per il resto mi lascia libera di gestire il mio tempo in solitudine e per questo le sarò sempre grata.

Sto bene. Non bene bene, ma bene. Ogni giorno di più. Me lo ripeto da quando sono qui, un momento dopo l'altro, e ogni minuto risalgo dal mio baratro un centimetro di più.

Fino a stasera.

Mi sono comprata un vestito di lino bianco, mezzo trasparente, ho fatto il bagno e mi sono fatta una treccia con i capelli pieni di sole e di sale, sono salita qui nel mio posto preferito, ho stappato una birra, acceso una sigaretta e un messaggio - anzi, due - ha rotto la mia maledetta riabilitazione.
Con un tempismo che oserei definire perfetto se non fosse un insulto alla mia intelligenza.

Perché anche se scappi dalle prigioni, anche se scappi dai guai, quelli in un momento in cui sei distratto ti appiccicano sopra un GPS e ti trovano lo stesso.

"È notte e non so se dormi, non so, io non dormo più perché ogni volta che mi metto a dormire finisce che ti cerco tra le lenzuola e tu non ci sei. Ed è colpa mia. Ci ho provato, a lasciarti andare, ma non ci sono riuscito e allora ho pensato che non so dove sei, Bibi, ma io ti cerco fuori da queste lenzuola. E a costo di guardare tra ogni mattone di ogni singola città del mondo, io ti trovo."

"Mi manchi"

Prepotente,
Ti

egoista,
amo

sbagliato.
ancora.

Ma mi fai schifo e mi hai fatto troppo male e indietro non si torna.
A costo di tenermi ancorata con le unghie a questo cornicione, urlando per la frustrazione e la contorta voglia di te che dici le cose giuste al momento sbagliato, finché non mi sanguinano le mani e anche oltre.

Scivolo per terra e mi siedo con le spalle appoggiate al muretto, sporcando il vestito; sciolgo la treccia e mi metto così, a guardare tutte le stelle che l'inquinamento di Roma non mi ha mai permesso di vedere, ma qui sì, sì che le vedo.

Indietro non si torna.

Tu sei (Le ceneri)Where stories live. Discover now