13c) NEMICI SVELATI

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Stava forse impazzendo?

Allibito e sconcertato vide le sue mani premere l'arma anche se non voleva che lo facessero. Vide la punta passare oltre il tessuto, ne avvertì il filo incidere la pelle. Solo con un enorme sforzo riuscì a trattenerle dall'affondare ancor di più la lama nelle carni.

Eppure sentì che stava perdendo, che quello che lo spingeva a suicidarsi diveniva di momento in momento più forte e lui debole, sempre più debole. Solo la volontà e la voglia di vivere lo trattennero dal lasciarsi andare a quell'istinto incontrollabile, ma la volontà questa volta non sembrava bastare. Troppa era la sua stanchezza, troppa la delusione.

Per quanto si opponesse con tutto se stesso, lentamente percepì la sua fine avvicinarsi. Strinse i denti e cercò le ultime briciole di forza rimasta. Le mani e le braccia tremarono nello sforzo. Cadde in ginocchio.

Il dolore della ferita non era nulla in confronto all'assurdità di quello che stava facendo, eppure non riusciva, non poteva allontanare quel pugnale da sé. Un grido disperato gli rimbombava nella testa:

"Fermati, pazzo! Fermati!" gli urlava, ma egli non era capace di ascoltarla fino in fondo.

Tutto attorno a lui non c'era più nulla, non sentiva più nulla al di fuori di quel grido: non voleva, non voleva!

Mai avrebbe creduto di arrivare a tanto. Mai e poi mai avrebbe pensato di arrivare alla sua fine come Sanzara per sua stessa mano. Eppure, se questo era l'Inevitabile, nulla l'avrebbe salvato. Per quanto potesse non piacergli, come Sanzara sapeva che avrebbe potuto succedere da un momento all'altro.

Quel momento pareva arrivato. Se così era, resistere oltre avrebbe prolungato inutilmente l'agonia. Cedergli, trovare una giusta pace forse era cosa onorevole. Onore, per sé e per la sua famiglia.

La consapevolezza di questo lo riempì di un piacevole calore che poco alla volta lo pervase completamente. Quando ne fu così sazio da sentirsene ebbro, decise che era giunto il momento di lasciarsi andare all'Inevitabile. Lentamente chiuse gli occhi dando l'addio alla vita.

Qualcun altro avrebbe preso il suo posto. Il Rammarico non sarebbe finito, ne era certo. Morire poteva anche essere dolce, sapendolo. Non desiderava altro: se la vita non lo chiamava più, lui non l'avrebbe più cercata.

Era deciso. Non avrebbe opposto altra resistenza.

Di colpo smise di trattenere le mani e si preparò ad accogliere l'acciaio del pugnale, ma quello si allontanò. Per quanto spingesse, quello resisteva. Se prima non riusciva ad allontanarlo, ora non riusciva ad attirarlo a sé.

Quale scherzo del destino, poteva essere così crudele!

Come prima la vita pareva rifiutarlo, ora era la morte a respingerlo.

Dopo un ultimo, inutile tentativo, aprì gli occhi e davanti a sé vide un uomo inginocchiato, con le mani strette alle sue per trattenerle. D'un tratto smise di tirare facendo cadere all'indietro l'uomo che lo stava salvando. Agile come un gatto selvatico, quello rotolò su se stesso e si rimise in piedi. Sembrava un Tumbà.

"Chi sei?" gli domandò Aldaberon. In mano stringeva ancora il pugnale "Già, chi sei?". Era confuso.

"Chi sei tu, piuttosto!" gli fece l'altro di rimando.

"Io?" gli rispose inebetito, guardandosi il sangue colargli sulle dita "Perché?".

"Come perché!" sbottò l'altro avvicinandoglisi. Era un giovane che poteva avere più o meno la sua età, di lineamenti gentili e perfetti, tanto belli che nemmeno la rabbia riusciva ad alterarli. Vestiva alla Tumbà e portava una lunga capigliatura gialla arrotolata a vita. Ma Aldaberon a malapena se ne accorse. Faticava a rendersi conto di qualunque cosa che non fosse l' essere ancora vivo.

Aveva già dato l'addio alla vita; era pronto ad accogliere la morte in pace e rassegnazione e ne era stato rifiutato. Si sentiva come rinato senza mai essere morto per davvero.

Era questo e quello insieme, contemporaneamente già in compagnia dei suoi avi e ancora Sanzara in loro potere. Nella nebbia ovattata delle sue percezioni, vedeva quel giovane davanti a sé alto come un gigante e possente come gli alberi della foresta. Gli stava chiedendo qualcosa. Qualcosa di cupo e lontano che non capì subito.

Sì, per una frazione di secondo ebbe l'impressione di ricordarsi le parole del giovane, però la sua mente era troppo persa nell'assurdità di quello che aveva fatto, perché tutto il resto esistesse. Solamente con un grande sforzo poté farcela. Poco alla volta racimolò un minimo di consapevolezza e si ritrovò con il pugnale stretto in mano. Lo sentì estraneo e minaccioso. La punta insanguinata.

Non ricordava, non capiva, nemmeno sapeva se era veramente vivo. Pensò che forse il giovane gigante avrebbe saputo dirglielo. Glielo chiese.

"Sono vivo?" gli fece guardandolo dal basso in alto, con il sole negli occhi ad abbagliarlo. Si schermò con una mano, faticava a fissarlo.

"Certo che sei vivo, accidenti a te. Si può sapere perché lo stavi facendo?".

"Già, perché?"  pensò Aldaberon "Cosa ci faccio qui? Dove mi trovo?"

Vagamente ricordò un fiume, un sentiero ...  alberi, tanti, enormi, immensi alberi.

"Certo" rispose poi al giovane "Sono... siamo in una foresta. Sì, ecco. Una foresta".

Accorgendosi delle sue condizioni, il giovane non insistette oltre.

"Ce la fai a metterti in piedi?" aggiunse in un tono più pacato.

"In piedi?" fece il Varego guardandosi attorno. Solo allora si rese conto di essere inginocchiato. Provò ad alzarsi, vacillò, cadde.

Il giovane gli si avvicinò, cautamente gli tolse il pugnale di mano, poi lo aiutò ad alzarsi.

Aldaberon vide che il giovane sfilava l'arma di suo padre e oppose una debole resistenza. Non voleva, gli era cara quell'arma infida che per poco non lo uccideva. Era preziosa, eppure lo stava per ammazzare. Provò un rifiuto improvviso verso quella lama. Non volle più con sé quell'oggetto di dolore.

"È tuo, amico mio" disse al giovane, indicandogli il pugnale di Alfons "A me non serve più". Il Tumbà si illuminò e si infilò il pugnale nello stivale.

Aldaberon vacillò, per poco non cadde ancora. Il Tumbà lo sostenne.

Anche avesse voluto opporsi non avrebbe potuto farlo. Era debole come un neonato, il più semplice movimento gli costava una fatica immensa. Tutto attorno, ogni cosa ruotava. Al braccio avvertiva la stretta delle mani del giovane e la voce, che gli giungeva lontana e ovattata.

Quel poco di consapevolezza che ancora aveva, rapidamente svanì con le ultime forze. Sentì che ben presto non avrebbe più saputo restare in piedi. Le gambe gli cedettero di colpo.

L'ultima cosa che avvertì prima che tutto divenisse nero, fu una stretta forte al braccio.

LA MASCHERA E LO SPECCHIO-Prima ParteWhere stories live. Discover now